Vi racconto la Zattera della Medusa…

“La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l’ottava i fantasmi della follia, la nona è la carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide. L’ultima è una vela. Bianca. All’orizzonte.”

Una cantilena che scandisce come un rosario  Il ventre del mare  di Alessandro Baricco, un fiume di immagini e di pensieri di due naufraghi della Medusa, la fregata francese in navigazione verso l’Africa, arenatasi su un banco di sabbia al largo del Senegal il 2 luglio 1816.

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Quello della Medusa è un racconto tragico, la cronaca drammatica dei dodici giorni di deriva della zattera allestita per i 147 naufraghi che non avevano trovato posto nelle scialuppe.

Una zattera di 20 metri per 7 con una vela ingovernabile e pochi viveri a bordo. Un inferno galleggiante.

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E in quelle interminabili ore, stipati, affamati e terrorizzati, gli uomini si trasformarono in belve. Muoiono di fame e di sete nell’indifferenza dei compagni di sventura e i loro corpi vengono abbandonati tra i flutti.

Al nono giorno i sopravvissuti cominciano a cibarsi dei cadaveri di chi non ce l’ha fatta. E poi anche ad uccidere per mangiare.

Il 17 luglio, all’alba del tredicesimo giorno, la nave Argo raggiunge la zattera. I superstiti sono solo quindici (ma altri cinque muoiono poche ore dopo i soccorsi).

Tra loro il medico di bordo Henri Savigny e il geografo Alexandre Corréard, coloro che racconteranno al mondo le atrocità che avevano vissuto nella Narrazione di un viaggio in Senegal nel 1816.

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Poco tempo dopo il giovanissimo artista Théodore Géricault sente parlare dell’episodio. Affascinato dalla tragedia del naufragio (ma anche voglioso di mettersi in mostra sfruttando la visibilità della disgrazia…), decise di dedicare un’enorme tela, la più grande che avesse mai fatto, alle ultime ore della zattera, quelle prima della salvezza.

Si documentò a lungo con i due sopravvissuti, e iniziò a disegnare e disegnare.

Studiò le figure di Corréard e Savigny…

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… e, forte della sua formazione accademica, ne raffigurò il corpo in pose plastiche, michelangiolesche.

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Approfondì lo studio di gruppi di figure umane con schizzi rapidi ma intensi.

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Cominciò ad immaginare questa massa umana accalcata sulla zattera. E agli schizzi si affiancano gli acquerelli e i primi bozzetti a colori.

È ancora indeciso se rappresentare il momento in cui i naufraghi avvistano la Argo o una scena di cannibalismo.

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Ad un certo punto comincia a precisarsi la piramide umana rivolta verso destra a richiamare l’attenzione della nave all’orizzonte, contrapposta alla piramide formata dall’albero con l’unica vela. La composizione, insomma, c’è già tutta. Ed è drammaticamente efficace: corpi protesi verso la speranza mentre, sul lato opposto, un anziano, possente e rassegnato, trattiene un giovanissimo cadavere per non farlo inghiottire dalle onde.

Anche nella tragedia non manca l’armonia delle forme: il torso dell’uomo che agita il drappo è un capolavoro di anatomia!

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Ma ancora Théodore non è contento. Deve raggiungere un realismo ancora più macabro e morboso. Si dà allo studio dal vero dei volti dei naufraghi, dei cadaveri degli annegati, di arti amputati, di teste ghigliottinate. E li riproduce senza risparmiarci i dettagli più disgustosi e il colore terreo della morte.

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E osserva il mare, le tempeste. Si reca sulle coste francesi per ammirare la potenza sublime delle onde, la forza irresistibile degli elementi. Da bravo artista romantico è profondamente attratto dal furore del mare.

E come William Turner o Caspar David Friedrich, non si sottrae alla seduzione della natura nelle sue manifestazioni più violente. Una natura matrigna capace di punire le ambizioni umane sprofondandole negli abissi dei suoi flutti.

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Nel 1819 il quadro è pronto. Un dipinto di circa cinque metri per sette completato in otto mesi febbrili di lavoro.

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Presentato al Salon di Parigi dello stesso anno con il titolo generico di “Scena di un naufragio” (ma tutti avevano capito di quale naufragio si trattasse), suscitò grande scalpore: qualcuno ne fu immediatamente stregato per il pathos travolgente, qualcun altro ne vide una rappresentazione della società del tempo, in balia della confusione post-napoleonica, altri trovarono orribile la distanza incolmabile con il Neoclassicismo.

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Quando il Louvre, nel 1824, anno della morte prematura di Géricault, acquista la grande tela, Jean-Auguste-Dominique Ingres arrivò ad affermare: « Vorrei che togliessero dal Museo del Louvre il quadro della “Medusa” […] Non posso tollerare queste “Meduse” e questi altri quadri d’anfiteatro, che dell’uomo ci mostrano soltanto il cadavere, non riproducono che il brutto, lo sconcio; no, non posso tollerarli! L’arte non deve essere altro che il bello e non insegnare che il bello»

Da bravo pittore neoclassico Ingres non poteva tollerare il compiacimento per il lugubre di Gericault (e l’idea che l’arte coincida con la ricerca del bello è un pregiudizio ancora attuale…). Eppure, in tanto orrore, c’è qualcosa di terribilmente bello.

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È una scena talmente coinvolgente che, ovviamente, è diventata un’icona dell’arte in pochissimo tempo.

Ripresa nei fumetti e nella pubblicità è stata rivisitata in tutti i modi possibili…

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Particolarmente suggestivi sono i tableau vivant come quello di Adad Hannah. Un quadro vivente drammatico quasi come l’originale.

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E, ultimissimo, un graffito di Banksy a Calais, la città francese dove migliaia di profughi attendono di poter traversare la Manica in cerca di salvezza.

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Ciò che continua ad affascinare è il grumo di emozioni ammassate su una tavola di legno. Le passioni più umane concentrate tra le onde.

E poi il senso metaforico di tutta la storia: un capitano inesperto ma presuntuoso, un equipaggio incapace di gestire l’emergenza, un gruppo di disperati tenuti in vita da un feroce istinto di sopravvivenza. Una storia attuale, purtroppo. Che ricalca altri naufragi, simbolici e non.

 

Emanuela Pulvirenti

https://www.didatticarte.it/Blog/?page_id=65

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26 risposte

  1. Rosaria ha detto:

    Che bella lettura: appassionante. Complimenti! La leggerò ai miei ragazzi (che già usano il Tuo testo). Quando vieni di nuovo a Napoli? Ciao

  2. Diego Totis ha detto:

    Non avevo dubbi!

  3. Giovanna Lauricella ha detto:

    Non ho mai insegnato (purtroppo!) storia dell’arte, ma le mie lezioni di italiano erano zeppe di riferimenti alle parallele vicende artistiche. Sempre presente la zattera di Gericault.

  4. Gianfranco ha detto:

    Potevo usare acerbi. Ma Il colore verde contiene molto di più, compreso un pizzico di speranza…
    “Il verde è il colore principale del mondo, e ciò da cui nasce la sua bellezza.”
    (Pedro Calderon de la Barca)
    Ammetto, questa l’ho cercata per l’occasione…

  5. Gianfranco ha detto:

    I tuoi allievi

  6. Gianfranco ha detto:

    Non so come, ma so con chi. Di sicuro con i tuoi verdi compagni di viaggio.

  7. Gianfranco ha detto:

    « Se con la vostra arte, amatissimo padre, avete
    sollevato quest’urlo dalle onde selvagge, ora calmatele.
    Sembra che l’aria voglia rovesciare fetida pece,
    ma che il mare, alzandosi fino al volto del cielo,
    ne attenui il fuoco. »
    Miranda, Atto I, Scena II, La Tempesta, W.S.

    • Mi hai fatto ricordare i tempi dell’università, quando ho progettato le scenografie per La tempesta per una materia universitaria. Chissà come l’avrei fatta adesso?

  8. gianfranco ha detto:

    «Volto la schiena al sole. Olà, Tashtego! fammi sentire il tuo martello. O mie tre guglie indomabili, chiglia intatta, e tu, scafo che solo Dio può forzare, tu ponte saldo e barra superba, e prua puntata sul Polo… nave gloriosa di morte! Dunque devi morire, e senza di me? Anche l’ultima ambizione dei più mediocri capitani mi deve essere tolta? O morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia massima grandezza sta nel maggior dolore. Ahimè! Riversatevi qui dai vostri punti lontani, onde coraggiose di tutta la mia vita, su in cima al mucchio di questo gran maroso di morte! Verso te avanzo, balena che distruggi e non vinci, fino all’ultimo ti combatto, dal cuore dell’inferno ti pugnalo, e in nome dell’odio ti sputo addosso il mio ultimo respiro. Affondi ogni bara e ogni carro in un solo vortice! E visto che non sono per me, che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio, benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la lancia!» Capitano Achab, Moby Dick

  9. gianfranco ha detto:

    …Considerate la vostra semenza:
    fatti non foste a viver come bruti,
    ma per seguir virtute e canoscenza”.
    Li miei compagni fec’io sì aguti,
    con questa orazion picciola, al cammino,
    che a pena poscia li avrei ritenuti;
    e volta nostra poppa nel mattino,
    dei remi facemmo ali al folle volo,
    sempre acquistando dal lato mancino.
    Tutte le stelle già de l’altro polo
    vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,
    che non surgea fuor del marin suolo.
    Cinque volte racceso e tante casso
    lo lume era di sotto da la luna,
    poi che ‘ntrati eravam nell’alto passo,
    quando n’apparve una montagna, bruna
    per la distanza, e parvemi alta tanto
    quanto veduta non avea alcuna.
    Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
    ché de la nova terra un turbo nacque,
    e percosse del legno il primo canto.
    Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
    a la quarta levar la poppa in suso
    e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
    infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.

  10. Elisa ha detto:

    Emozionante aeticolo..davvero affascinante come partendo da un’opera (a parer mio bellissima in tutto il suo dramma) riesce a raccontare una storia..stupendo!
    Ho avuto la grandissima fortuna di ammirare dal vivo questo quadro..se potessi tornerei in questo esatto momento li di fronte a perdermi in ogni dettaglio!
    Gericault e delacroix sono stati alcuni degli artisti che più ho amato trattare a scuola..sono facili da apprezzare nella loro immediatezza anche da chi come me magari è catturato da quelle opere che arrivano per cosi dire senza che qualcuno ce le “traduca”.
    La zattera della medusa è per me qualcosa da pelle d’oca..da stomaco sottosopra..proprio per questo suo aspetto inquietante che purtroppo ha dell’attuale

  11. carlo giabbanelli ha detto:

    bellissimo. Grazie, Emanuela.

  12. Sara Fabrizi ha detto:

    Una narrazione incredibile (sia il quadro, sia il racconto della sua genesi):
    complimenti!

  13. Diego Totis ha detto:

    Ciao, ispirato da questo capolavoro avevo prodotto due opere, le trovi su google immagini digitando -zattera della medusa diego totis – mi farebbe molto piacere se mi dici che ne pensi. Grazie.

    • didatticarte ha detto:

      Ciao Diego, mi piacciono entrambe! Quella che riprende il quadro, fatta con la carta dei quotidiani è particolarmente interessante per l’aspetto pop che dà all’evento; l’altra, quella con la pianta della zattera, dà un senso pittorico al luogo fisico del dramma. Anche questa ha una sua suggestione 🙂

  14. Ariannaa ha detto:

    complimenti! Nella lettura dell’interessante descrizione, leggo: “Nel 1919 il quadro è pronto. Un dipinto di circa cinque metri per sette completato in otto mesi febbrili di lavoro.” Forse, la data giusta è 1819…
    grazie del tuo lavoro, utile per tutti noi, amanti dell’arte e della sua didattica.
    Arianna