Le parole dell’arte
Tutto è cominciato con un piccolo esercizio fatto in classe coi ragazzi di quinta. Si trattava, essenzialmente, di prendere alcuni paragrafi del libro di storia dell’arte relativi all’opera di Antonio Canova e trascriverli senza utilizzare nessuno dei termini presenti nel libro. Un po’ un gioco, un po’ un compito…
Non un riassunto e neanche una sostituzione sistematica con sinonimi: ho chiesto, infatti, di provare anche a cambiare la struttura del discorso purché venissero espressi sostanzialmente gli stessi concetti.
Perché fare una lavoro di italiano nell’ora di storia dell’arte? Semplice: anche se la disciplina è fondamentalmente visiva è con le parole che dobbiamo raccontarla. E mi sono resa conto, negli anni, che le parole dell’arte (ma anche tante altre, purtroppo) sono del tutto ignote agli studenti.
Lavorare sul glossario è fondamentale, ma non basta. Occorre inserire le parole in una frase, in un discorso, in un racconto vero e proprio.
Comprensibile, coerente, logico ma non semplificato. Perché se manca il termine giusto si rischia di banalizzare il concetto. Perché chiamare, ad esempio, ogni scultura “opera” quando puoi distinguere tra gruppo scultoreo, bassorilievo, altorilievo, fusione in bronzo, statua equestre, etc. etc.?
Alcune parole, poi, sono proprio stonate, quando si parla d’arte. Certe volte ci sarebbe proprio da mettersi a strillare come Nanni Moretti…
Però… c’è sempre un “però”. Ogni situazione, infatti, esige un registro linguistico specifico, uno stile del discorso, se vogliamo.
Così ho fatto provare agli studenti ad immaginare di essere Canova e di scrivere una pagina di diario. È chiaro che se sei un artista e stai scrivendo degli appunti personali, non utilizzerai troppi tecnicismi e forse invece che “gruppo scultoreo” suonerà meglio un più generico “lavoro”…
Così, se sul libro troviamo scritto che “Ugo Foscolo aveva lodato la canoviana Venere italica esposta a Firenze, alla Galleria degli Uffizi“, lo scultore avrebbe potuto scrivere nel suo diario “Sono davvero lusingato dell’apprezzamento di Foscolo verso la mia Venere italica. L’ha vista agli Uffizi pochi giorni fa e l’ha ampiamente lodata”.
Ma anche, più colloquialmente, “Entusiasta! Foscolo è davvero entusiasta della mia Venere italica! Non ci posso credere… neanche il tempo di portarla agli Uffizi che si è precipitato là per vederla. E gli è piaciuta da morire!!!”.
Che dite, troppo discorsivo per un lavoro scolastico? La verità è che i registri linguistici vanno conosciuti tutti ed usati al momento giusto. E sapersi spostare da un registro all’altro è una competenza fondamentale. Pensate che, partendo sempre dal testo del libro, ho chiesto ai ragazzi di immaginare Canova che scrive uno stato su Facebook!
A volte è proprio il cambio di registro l’elemento spiazzante che può incuriosire e avvicinare lo studente ad un argomento particolarmente ostico!
Ecco, ad esempio, come Paola Guagliumi ci presenta Canova nel suo celebre blog L’arte spiegata ai truzzi:
“Canova è er granne artista der Neoclassicismo italiano; ndo’ Neoclassicismo vor dì ritorno all’arte classica der periodo d’oro dii Greci. Mo però me pare ovvio che tornà ‘ndietro nun se po’: e pure rifà na cosa ugguale ugguale, specie si sò passati no anni ma secoli, è praticamente ‘mpossibbile. Fra l’artro, tocca dì, Canova e quelli der tempo suo, ciaveveno n’idea un po’ loro der monno classico, e certe nozzioni ereno pure popo sbajate. Peresempio, lui se credeva che ‘e statue antiche ereno bianche come ‘e vedemo noi oggi, e ‘e rifaceva ugguali”.
Qui torna un concetto che ho sempre sostenuto con fermezza: la forma è sostanza! In qualsiasi modalità di comunicazione, visiva o verbale che sia, il contenitore (il come), fa parte integrante del contenuto (il cosa). Se cambia la forma anche il contenuto non sarà più lo stesso.
Sempre restando su Canova, possiamo osservare il deciso cambio di registro tra le sculture finite, liriche e altisonanti e i relativi bozzetti in argilla, gergali, intimi, discorsivi (confesso che li preferisco molto di più alle sue glaciali creazioni marmoree).
E a proposito di cambiamenti di registro e variazioni sul tema mi vengono in mente le favolose 99 versioni di un banalissimo episodio di vita cittadina che Raymond Queneau ha trasformato nei memorabili Esercizi di stile.
Sostanzialmente un individuo dal collo lungo e con un cappello attorno al quale è arrotolata una treccia si lamenta sul bus accusando un altro passeggero di avergli pestato il piede ma poi si allontana verso un posto a sedere libero. Poco dopo, alla stazione Saint Lazare, lo stesso uomo ascolta un amico che gli consiglia di aggiungere un bottone al soprabito.
Una storiella da nulla che può diventare telegrafica: BUS COMPLETO STOP TIZIO LUNGOCOLLO CAPPELLO TRECCIA APOSTROFA SCONOSCIUTO SENZA VALIDO PRETESTO STOP PROBLEMA CONCERNE ALLUCI TOCCATI TACCO…
poi insiemistica: Nell’autobus S si consideri l’insieme A dei passeggeri seduti e l’insieme D dei passeggeri in piedi…
poi un interrogatorio: – A che ora, nel giorno in oggetto, è passato l’autobus di linea S previsto per mezzogiorno e ventitre, in direzione porta di Champerret? – A mezzogiorno e trentotto. – Precisi il teste se il suddetto automezzo era particolarmente affollato. – Un casino. – A domanda risponde: affollatissimo.
un’ammissione di ignoranza: Io proprio non so cosa vogliono da me. Va bene, ho preso la S verso mezzogiorno. Se c’era gente? Certo, a quell’ora. Un giovanotto dal cappello floscio? Perché no? lo vado mica a guardare la gente nelle palle degli occhi.
una formulazione con litoti: Non s’era in pochi a spostarci. Un tale, al di qua della maturità, e che non sembrava un mostro d’intelligenza, borbottò per un poco con un signore che a lato si sarebbe comportato in modo improprio.
…e così via, in un esperimento sulle possibilità del linguaggio portato alle estreme conseguenze!
Arrivati poi al momento in cui si padroneggiano forme e contenuti, nel nostro caso gli stili comunicativi, la microlingua e le nozioni di storia dell’arte, si può anche giocare in modo ancora più irriverente, facendo il verso ai critici d’arte…
Non è un esercizio inutile e banale come può sembrare a prima vista. L’hanno già fatto in passato Achille Campanile e Bruno Munari!
L’effetto è sempre piuttosto esilarante come avviene per le invenzioni critiche di Corrado Guzzanti, dal Sorpresismo al Nascondismo…
Questo tipo di giudizi artistici adattabili a qualunque autore ha fatto nascere lo spassosissimo filone della critica d’arte generativa: generatori automatici di commenti alle opere d’arte o finti curricula degli artisti.
Presa dall’entusiasmo per questa forma satirica nell’uso delle parole dell’arte ho provato anch’io a creare il mio piccolo generatore di critiche.
Cliccate sui pallini gialli per leggere sette variazioni descrittive adatte a qualunque artista contemporaneo.
Divertente vero? Basta cambiare alcuni termini e se ne possono creare centinaia. Naturalmente sono tutte incomprensibili e misteriose… roba da addetti ai lavori (almeno così suonano).
Allora vi svelo un segreto: uno di questi è un vero curriculum che ho letto sul sito di un artista… indovinate quale?
Riporto una frase dell’Argan, tratta dal secondo volume della sua”Storia dell’arte italiana” (pag. 76) che ha causato a noi studenti numerosi mal di testa nel vano tentativo di decifrarla: “il valore non è nella cosa, come fenomeno, ma in ciò che l’intelletto costruisce sul fenomeno. Riflettiamo: la forma è rappresentazione di fenomeni e fenomeno essa stessa; come fenomeno dei fenomeni, è fenomeno assoluto, chiave per intendere il mondo dei fenomeni.”
Che fenomeno, quell’Argan!
“Predomioranzabelusmetico” … aggiungerei.
Dino Buzzati: “Il critico d’arte”
Nella 622esima sala della Biennale il noto critico Paolo Malusardi sostò perplesso. Era una personale di Leo Squittinna, una trentina di quadri apparentemente tutti uguali, formati da un reticolo di linee perpendicolari tipo Mondrian, solo che in questo caso il fondo aveva colori accesi e nell’inferriata, per così dire, i tratti orizzontali, molto più grossi di quelli verticali, qua e là diventavano più fitti, il che dava un senso di pulsazione, di stretta, di crampo, come quando nelle
digestioni difficili qualcosa si ingorga nello stomaco e duole, per poi sciogliersi nel giusto andamento viscerale.
Con le code degli occhi, il critico si accertò di non avere testimoni. Completamente solo. Nel pomeriggio torrido i visitatori erano stati pochi e quei pochi già sfollavano. Tra breve si sarebbe chiuso.
Squittinna? Il critico cercò nella memoria. Una personale a Roma, tre anni prima, se non si sbagliava. Ma a quel tempo il pittore dipingeva ancora cose: figure umane, paesaggi, vasi e pere, secondo la putrefatta tradizione. Di più non ricordava.
Cercò nel catalogo. La lista dei quadri esposti era preceduta da una breve introduzione di un ignoto Ermanno Lais. Diede una occhiata: le solite parole. Squittinna, Squittinna, ripeté sommessamente. Il nome gli richiamava qualche cosa di recente. Ma il ricordo al momento gli sfuggiva.
Ah sì. Due giorni prima, gliene aveva parlato il Tamburini, un gobbetto immancabile in tutte le grandi mostre d’arte, un manìaco che sfogava all’ombra dei pittori le sue fallite aspirazioni, un rompiscatole, attaccabottoni temutissimo.
Tuttavia infallibile, data la lunga e disinteressata pratica, nel percepire, anzi nel presentire il fenomeno di cui i giornali a rotocalco, due anni dopo, avrebbero dedicato con l’avallo della critica ufficiale, intere pagine a colori. Ebbene, questo Tamburini, vero furetto delle arti belle, due sere prima, a un tavolino del Florian, aveva lungamente perorato, senza che i presenti gli badassero, a favore appunto dello Squittinna, L’unica grande rivelazione, sosteneva, della Biennale veneziana, la sola personalità che «emergesse dalla palude (testuali parole) del conformismo non figurativo».
Squittinna, Squittinna, strano nome. Il critico passò in rassegna mentalmente i cento e più articoli dei colleghi pubblicati fino allora sulla mostra. Nessuno aveva dedicato allo Squittinna più di due o tre righe. Squittinna era passato inosservato. Terreno dunque vergine. Per lui, critico ormai di prima linea, poteva essere un’ottima occasione.
Guardò più attentamente. Certo, quelle nude geometrie per commuoverlo, non lo commuovevan di sicuro. Diciamo pure, non gliene importava un fico secco. Eppure poteva esserci uno spunto. Chissà, il destino riservava a lui l’invidiabile compito di rivelare un nuovo grande artista.
Guardò di nuovo i quadri. Sbilanciarsi in favore di Squittinna – si domandò – sarebbe stato un rischio? Qualche collega gli avrebbe potuto rinfacciare d’aver commesso una scandalosa gaffe? Assolutamente no. Erano così essenziali, quelle tele, così nude, così lontane da qualsiasi possibile diletto dei volgari sensi, che un critico, lodandole, si sarebbe trovato in una botte di ferro. Senza contare l’ipotesi – perché escluderlo a priori? – che là dentro ci fosse veramente un genio destinato a far parlare di sé per lunghi anni e a riempire di quadricromie parecchi volumi di Skira.
Così rincuorato, con la prospettiva di scrivere un articolo che avrebbe fatto spasimare d’invidia i suoi colleghi per la rabbia di essersi lasciata sfuggire una preda così ghiotta, egli fece un lieve esame di coscienza. Che cosa si poteva dire di Squittinna? In determinate, e rare, condizioni favorevoli, il critico riusciva almeno a essere sincero con se stesso. E si rispose. «Potrei dire che Squittinna è un astrattista. Che i suoi quadri non vogliono rappresentare niente. Che il suo linguaggio è un puro gioco geometrico di spazi quadrilateri e di linee che li chiudono. Ma spera di farsi perdonare il manifesto plagio di Mondrian con una innovazione spiritosa: fare grosse le linee orizzontali e sottili quelle verticali, e variare tale ispessimento così da ottenere un curioso effetto: come se la superficie del quadro non fosse piana bensì a onde rilevate. Un trompe l’oeil astrattista insomma…»
«Perbacco, è una magnifica trovata» disse a se stesso il critico «va là che non sei del tutto idiota.» A questo punto fu colto da un brivido, come chi passeggiando spensieratamente d’un sùbito si avvede di procedere sull’orlo di un abisso. Se avesse manifestato sulla carta quelle idee, semplicemente, tali e quali, come gli erano venute in mente, che cosa mai si sarebbe detto di lui in giro, ai tavolini del Florian, in via Margutta, alla Sovrintendenza, nei caffè di via Brera? Al pensiero, sorrise. No, no, grazie a Dio il mestiere lo conosceva a fondo. Per ogni cosa c’è il linguaggio adatto e nel linguaggio che si addice alla pittura lui era ferratissimo. Sì e no, c’era solo il Poltergeister che potesse stargli alla pari. Sugli spalti dell’avanguardismo critico lui, Malusardi, era forse il più in vista di tutti, il più temuto.
Un’ora dopo, nella camera d’albergo, con dinanzi il catalogo della Biennale aperto alla sala di Squittinna, e una bottiglia d’acqua minerale, fumando una sigaretta dopo l’altra, scriveva: «…al quale (Squittinna) sarebbe oltremodo faticoso disconoscere, pur sotto il voluto peso di inevitabili e fin troppo ovvii apparentamenti stilistici, un irrigidimento, per non dire infrenabile vocazione, verso ascetismi formali che, senza rifiutare le suggestioni della casualità dialettica, amano ribadire una stretta misura dell’atto rappresentativo, o meglio evocativo, quale perentoria imposizione ritmica secondo uno schedario di filtratissime prefigurazioni…»
E come esprimere con un minimo di decenza esoterica il banale concetto di trompe l’oeil? Ecco, per esempio: «Ma qui appunto si precisa come la meccanica mondrianiana a lui si presti solo nel limite di un termine di trapasso da nozione a coscienza della realtà, dove questa sarà sì rappresentata nella sua prontezza fenomenica più esigente, ma, grazie a un puntuale astrarsi, si amplierà in una surrogazione operazionale di più vasta e impervia portata…»
Rilesse due volte, scosse il capo, cancellò «infrenabile vocazione», inserì, dopo «ribadire», la precisazione «con inusitata pregnanza», rilesse altre due volte, scosse di nuovo il capo, sollevò la cornetta del telefono, chiese la comunicazione con il bar, ordinò un doppio whisky, giacque sulla poltrona assorto in pensieri tortuosi. Non era soddisfatto.
Chissà forse il whisky gli avrebbe dato la vagheggiata ispirazione.
Gliela diede. In un baleno. Ma se – fu la domanda che egli rivolse a se stesso d’improvviso – se dalla poesia ermetica è germinata quasi per necessità una critica ermetica non era giusto che dall’astrattismo nascesse una critica astrattista?
Rabbrividì quasi, misurando confusamente gli sviluppi di una così audace concezione. Un vero colpo d’ala. Semplicissimo, eppur difficile come tutte le cose semplici. Tanto è vero che nessuno ci aveva mai pensato. E lui sarebbe stato il caposcuola. In pratica non restava che da trasferire sulla pagina la tecnica finora adottata sulle tele.
Con una certa titubanza sulle prime, come chi prova un meccanismo ignoto, quindi rinfrancandosi, via via che le parole si accavallavano l’una sull’altra, infine con incalzante orgoglio, scrisse: «…al quale (Squittinna) sul mentre perciocché nel contrappunto di una strategia testimoniale, si reperisce il nesso di riscatto dal consunto pedissequo relazionamento realtà – realtà fra i postulati additivi. Sintomo esplicito di un farsi. E l’inquieto immergersi in un momento fatale dunque, da cui i moduli consumerebbero l’apparenza di una sostanza efficiente, così avvertita e sensibile da consumare I termini in sopravvivenza peculiare di poesia.»
Si arrestò, ansando. Febbricitava. Rilesse ansiosamente.
No, non c’era ancora. La forza d’inerzia delle vecchie abitudini tendeva a riportarlo indietro, a un linguaggio ormai troppo risaputo. Anche le ultime catene bisognava infrangere, per conquistare una sostanziale libertà. Si gettò a capofitto.
«Il pittrore» scrisse, padroneggiato da un incalzante raptus «di del dal col affioriccio ganolsi coscienziamo la simi-leguarsi. Recusia estemesica! Altrinon si memocherebbe il persuo stisse in corisadicone elibuttorro. Ziano che diman-nuce lo qualitare rumelettico di sabirespo padronò. E sonfio tezio e stampo egualiterebbero nello Squittinna il trilismo scernosti d’ancomacona percussi. Tambron tambron, quilera dovressimo, ghiendola namicadi coi tuffro fulcrosi, quantano, sul gicla d’nogiche i metazioni, gosibarre, che piò levapo si su predomioranzabelusmetico, rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca. Verè chi…»
Era già buio quando prese fiato. Si sentiva sfinito e rotto, quasi avesse preso un sacco di legnate. Ma felice. Quindici fogli di fitta scrittura giacevano sparpagliati attorno. Li raccolse. Li rilesse centellinando l’ultimo whisky del fondo del bicchiere. Alla fine improvvisò una danza di vittoria. Per il demonio, questo sì, era genio.
Sdraiata mollemente sul divano, Fabrizia Smith-Lombrassa, ragazza aggiornatissima o per dirla più elegantemente «assai avvertita», leggeva avidamente il saggio critico. A un tratto scoppiò in una risata. « Senti, senti, Diomeda, che tesoro – disse volgendosi all’amica – senti come gliela canta, il Malusardi, a quei poveri figurativi… Rifè comerizzando per rerare la biffetta posca o pisca!»
Risero di gusto entrambe.
« Spiritoso, niente da dire « approvò Diomeda. « Ah, io l’adoro, il Malusardi. è un formidabile!»
E io adoro Buzzati!
Chiara, semplice, esaustiva profonda , in una parola: insuperabile. Complimenti
Grazie!
Ahahah! La parte della critica adatta a tutti è favolosa … ed è anche l’unica possibile a mio parere, o meglio secondo il parere che mi trova pienamente d’accordo, di Gombrich, che ritiene impossibile pronunciare giudizi di valore artistico sugli artisti contemporanei in mancanza di distanza storica. Un po una versione di “Fu vera gloria ? Ai posteri l’ardua sentenza”
ma quanto mi sarebbe piaciuto averti come compagna di strada e collega! sarei stata volentieri tua complice! 😀
E non sai quanto avrei bisogno di complici. Il mio lavoro solitario ne uscirebbe rinvigorito!
vorrei essere un tuo alunno, davvero.
… ne conosco un po’ che farebbero volentieri cambio 😉
Nel Mare Magnum dei contributi metodologici sul fare artistico, i suoi commenti e i suoi articoli li trovo davvero compiti, utili, divertenti e stimolanti. Molte sperimentazioni con i miei studenti saranno debitrici delle sue imbeccate. Grazie
Grazie Cosimo! È un vero onore per me 😀