I cinque sensi secondo Rubens e Brueghel

I cinque sensi è una serie dipinta tra il 1617 e il 1618 dalla coppia di pittori fiamminghi Jan Brueghel il Vecchio (1568-1625), figlio del famoso Pieter Brueghel il Vecchio, e Peter Paul Rubens (1577-1640). La loro collaborazione è un fatto piuttosto insolito nella storia dell’arte. In genere i dipinti fatti a quattro mani sono quelli realizzati da maestro e allievo, come il Battesimo di Cristo (1470-1475) di Andrea del Verrocchio in cui un giovanissimo Leonardo da Vinci ha dipinto la figura dell’angelo.

Oppure può capitare tra “colleghi” di bottega, come i fratelli Antonio e Piero del Pollaiolo che lavoravano spesso sulle stesse opere tanto da rendere difficile l’attribuzione esclusiva all’uno o all’altro (è il caso delle celebri dame dipinte tra il 1465 e il 1480).

Ma è molto raro che due artisti affermati e indipendenti decidano di dipingere insieme. L’effetto ricorda certi celebri duetti nella musica rock. Uno per tutti: i Queen e David Bowie con Under Pressure.

Qualcosa del genere è avvenuto ad Anversa all’inizio del Seicento. Brueghel e Rubens erano i pittori più quotati della città ma erano anche legati da una profonda amicizia che li ha portati a dipingere insieme circa 24 tele (qui potete scaricare il catalogo della mostra realizzata al Getty nel 2006).
Il segreto di questa proficua collaborazione stava nelle differenze tra i due autori che li rendevano perfettamente complementari. Se, infatti, Brueghel era il pittore di paesaggi e nature morte per eccellenza…

… Rubens era l’artista dei corpi espressivi e carnali.

Dunque quello che hanno fatto è stato mettere assieme i loro talenti per realizzare un ciclo straordinario: cinque allegorie dedicate alla vista, all’udito, all’olfatto, al gusto e al tatto.
Li ho definiti straordinari perché creare un’allegoria non è cosa semplice di per sé (quelle delle arti, ad esempio, vengono risolte inserendo gli strumenti propri di ciascuna disciplina), ma riuscire a simboleggiare le sensazioni provate dal nostro corpo è un’impresa eccezionale. Occorre creare delle sinestesie, immagini capaci di evocare sensazioni extravisive. In realtà il tema delle allegorie dei cinque sensi non era una novità. Esisteva già da tempo nella pittura fiamminga, ma non era mai stato affrontato con la fastosità di questa serie.

Vediamole una per volta. La prima è Il senso della vista, un olio su tavola del 1617 (per vederlo da vicino fate clic sul titolo). Le dimensioni sono per tutte le opere del ciclo di 65 x 110 cm e sono conservate conservato al Museo di Prado di Madrid. Non è un caso che i due artisti abbiano iniziato dalla visione: per Aristotele era il più importante dei cinque sensi e, senz’altro, è quello maggiormente coinvolto nelle arti. Bruegel e Rubens hanno rappresentato la vista attraverso l’immagine di Cupido che mostra alla madre Venere un quadro di arte sacra in cui è raffigurato il miracolo della guarigione di un cieco.

Tutto lo spazio, ricco come una wunderkammer, è pieno di opere d’arte, oggetti da apprezzare proprio con la vista. Si tratta di quadri nel quadro, veri dipinti realizzati da Rubens in altre occasioni. Sulla parete di fondo, ad esempio, campeggia la straordinaria Caccia alla tigre dipinta appena l’anno prima, sopra una parete di antichi busti romani.
Non mancano tanti strumenti astronomici legati alla visione scientifica come il telescopio, la sfera armillare, il mappamondo o il compasso.
Accanto ai piedi di Cupido una scimmietta tiene in mano un paio di occhiali mentre vicino alla mano di Venere è posata una lente di ingrandimento. Alcuni oggetti fanno riferimento a un concetto più spirituale di visione: il pavone, ad esempio, simboleggia l’occhio di Dio che vede ogni cosa, grazie al particolare disegno sulle piume della coda. Oltre l’arco un paesaggio nordico ricco di dettagli alla maniera fiamminga, opera di Brueghel, dà profondità alla scena, così come la luce che si irradia dal fondo della galleria sul lato destro.

Il secondo dipinto è Il senso dell’udito, del 1617-1618. In questo caso è protagonista la musica, attraverso la rappresentazione di tanti strumenti diversi.

Al centro della scena Venere suona il liuto e canta assieme a Cupido. Un cervo, animale dall’udito proverbiale, ascolta con attenzione. Più a sinistra sta un tavolo con sette leggii applicati al bordo. Sopra ciascuno c’è uno spartito aperto mentre altre partiture sono posate per terra. Sul pavimento giace un campionario completo di strumenti dell’epoca a corda e a fiato: violoncelli, viole da gamba, violini e poi corni, trombe, flauti. Sul bordo sinistro c’è anche un clavicembalo mentre sul fondo sta suonando una piccola orchestra.
Sulla destra si trovano anche alcuni orologi, strumenti spesso abbinati a carillon musicali che segnano le ore. Sulla parete, invece, è appeso un quadro con la scena di Orfeo che ammansisce gli animali selvaggi al suono della sua lira. Numerosi sono anche gli uccelli (pappagalli e tucani, ma anche passeri e un cacatua), che contribuiscono alla sonorità della scena. Ma ci sono anche un fucile e alcuni sonagli, oggetti senz’altro rumorosi.

Naturalmente ciò che salta all’occhio prima di ogni cosa è il paesaggio naturale attraversato dagli uccelli in volo. La sua forza è data dalla grande luminosità che produce sugli archi un effetto di controluce, dai toni freddi che contrastano con quelli caldi degli interni e dall’effetto di cornice prodotto dai tre archi del loggiato.

Il terzo quadro è Il senso dell’olfatto, l’unico ambientato completamente in esterni. Venere e Cupido si trovano in mezzo a un giardino paradisiaco con rose, gigli, tulipani, iris e altri fiori profumati resi con grande precisione. Le fragranze si mescolano tra loro in un’atmosfera inebriante.

Accanto a Venere sta uno zibetto acciambellato. Si tratta di un animale dall’odore molto intenso ma il profumo dei fiori lo soverchia, tanto che il cane a destra della dea non ne avverte la presenza.
L’edificio sulla sinistra è una distilleria di profumi e alcune boccette odorose sono posate ai piedi di Venere, assieme a una scatola di biscotti.

Quarta opera della serie è Il senso del gusto. Niente di più facile: tutto gira attorno a un sontuoso banchetto ricco di portate di ogni genere.

Stavolta non ci sono più Venere e Cupido ma un satiro che versa da bere in una coppa dorata alla ninfa seduta al tavolo, intenta a mangiare un’ostrica. Intorno a lei è un tripudio di selvaggina, aragoste, frutta, pesce, volatili. Tanti animali, ancora da cucinare, sono ammassati sulla destra, davanti allo sfondo di un bosco verdeggiante popolato da animali ancora vivi (ma prossimi a fare la stessa fine…).
A sinistra, sullo sfondo, si intravede la cucina in piena attività. A quest’abbondanza si contrappone il delicato disegno in controluce delle foglie di vite, sospese sulle catene degli archi. E ancora più in fondo alcune casette nordiche riflesse sull’acqua.

Ogni dettaglio è una prova di virtuosismo: dai riflessi sul vetro alla pelliccia degli animali, dai colori delle piume ai disegni della tappezzeria. E tuttavia questi quadri non sono solo un’esaltazione delle gioie dei sensi. Al loro interno contengono sempre rimandi alla sfera religiosa e velati ammonimenti morali. In questo caso, ad esempio, un quadro con le Nozze di Cana campeggia in bella vista sulla parete a ricordare la sacralità del cibo.

Ultimo della serie Il senso del tatto, una scena caratterizzata da una profusione di elmi e corazze. Si tratta di oggetti che, coprendo interamente il corpo, ostacolano il contatto fisico. Ma qui sono vuoti, a simboleggiare quel recupero della tattilità esaltato dal bacio di Venere al piccolo Cupido.

Dietro la massa di armature accatastate due fabbri lavorano sulle incudini a ricordare la fucina di Vulcano, il dio che forgiava le armi. A destra di Venere alcuni strumenti medici, a indicare che anche il dolore è una sensazione fisica. Sulla parete una scena di flagellazione di Cristo (il cui significato “tattile” è evidente) e una battaglia corpo a corpo di soldati e cavalli. A sinistra della dea un piccolo braciere acceso aggiunge alla gamma di percezioni epidermiche anche il calore del fuoco.
A dare profondità alla scena un raggio di luce che illumina lo sfondo di questa tetra fucina.

La scena è chiusa in alto da un voluminoso drappo, quasi un sipario aperto. Si tratta di un classico espediente barocco che dà teatralità alla scena trasformandola in uno spettacolo che si offre ai nostri occhi. 

Da parte sua l’osservatore non può fare altro che esplorare l’immagine in ogni suo dettaglio perdendosi nell’infinito gioco dei quadri nel quadro o nei dettagli minutissimi di fiori, animali e alberi. Tutto è calcolato: se alla prima occhiata puntiamo subito sul corpo chiaro della donna, subito dopo iniziamo a vagare senza meta tra i tanti oggetti della scena.

Non è noto chi fosse il committente dei dipinti. Di certo le architetture rimandano alle forme dei palazzi di Alberto VII, governatore dei Paesi Bassi spagnoli, e di sua moglie Isabella Clara Eugenia. Dei due regnanti, addirittura, c’è un ritratto dentro il quadro dedicato alla vista, elemento che rafforza l’ipotesi della loro committenza.

Quel che è certo è che si tratta di opere impensabili nell’Italia della Controriforma che, al contrario, rigettava ogni minimo rimando alla fisicità dei corpi. Come scrive nel 1624 il cardinale Federico Borromeo nel suo De pictura sacra, oltre a mettere definitivamente al bando il nudo: “Proibiamo nel modo più assoluto che nella chiesa vengano esposte immagini procaci” vietando inoltre “veli gonfi ed agitati da venti in modo che la veste ostenti grazie voluttuose“.
Anche se il riferimento era alle opere a tema sacro (genere dominante nell’Italia del Seicento) questa censura finisce per condizionare ogni altro genere e forse sta alla base di una certa sessuofobia che ancora aleggia sulle arti visive in tutto l’Occidente. Ma questa è un’altra storia e prima o poi ve la racconto.

 

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4 risposte

  1. Carme Miquel ha detto:

    Quanto è bello leggere le tue righe. Gli aromi hanno raggiunto Barcellona. Un piacere seguirti…

  2. luisa ha detto:

    Bellissimo questo viaggio tra i sensi e con la tua precisa spiegazione dei dettagli più “celati” tutto appare più chiaro. Nei dipinti barocchi c’è il rischio di perdersi in mille particolari, ma ci hai pensato tu a rimettere ordine e chiarezza. Come sempre grazie Emanuela.

    • Ti ringrazio, Luisa. La quantità di dettagli in effetti fa venire le vertigini! Ho selezionato quelli più rilevanti, ma sul sito del museo i quadri possono essere osservati con un forte ingrandimento per scoprire decine di nuovi particolari.