Come si trova la geometria di un dipinto?
È una domanda che mi ha fatto un amico poco tempo fa: esiste un metodo per individuare il tracciato geometrico che regola un dipinto?
Nel rispondere ho avuto un attimo di esitazione. Si tratta, infatti, di una delle tante cose che diamo per scontato nell’insegnamento della storia dell’arte, che mettiamo dentro i libri come passaggio obbligato nella lettura dell’opera e che, per alcuni dipinti, assume un’importanza quasi superiore all’opera stessa.
E tuttavia è evidente che si tratta – ad esclusione degli schemi prospettici (come quello della Scuola di Atene) – di interpretazioni, di ipotesi.
Gli artisti del passato, infatti, non tracciavano cerchi e triangoli nei loro disegni preparatori né ci hanno lasciato testimonianze scritte di questo procedimento.
Questo tipo di analisi geometrica, realizzata sovrapponendo al dipinto griglie, triangoli, cerchi e diagonali, non esplicitamente documentati dagli artisti, è una pratica recente, nata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando la storia dell’arte si è affermata come disciplina autonoma e si è sviluppato un interesse per la struttura formale delle opere, oltre che per i contenuti iconografici o storici. È un mezzo, dunque, che mira a comprendere l’intenzionalità progettuale nella ricerca di un’armonia visiva.
Tra i primi a proporre un’analisi sistematica delle strutture formali e compositive delle opere va ricordato lo storico dell’arte svizzero Heinrich Wölfflin (1864-1945), lo studioso che ha introdotto l’idea che la forma sia propria di un’epoca e che l’artista non possa fare a meno di muoversi all’interno di schemi e linguaggi del suo tempo. Nella sua concezione, la forma sarebbe persino più importante del contenuto.
Un altro contributo, in direzione spiccatamente geometrica, viene dal tedesco Rudolf Arnheim (1904-2007). Nel suo Arte e percezione visiva ha approfondito il ruolo delle strutture geometriche e delle linee di forza nella lettura dell’opera. Il suo approccio però viene dalla psicologia della Gestalt, una teoria legata alle regole della percezione, e non da una visione della forma come risultato di un’epoca storica.
Detto questo, se serve analizzare un’opera dal punto di vista geometrico, in assenza di schemi preesistenti e di indicazioni da parte dell’autore, come si procede?
Per iniziare, occorre osservare la composizione: se c’è una geometria “forte” questa salta subito all’occhio. Nella Strage degli innocenti di Guido Reni, per esempio, c’è un’evidente andamento a V che crea un vuoto al centro. Un po’ meno visibile è una seconda V capovolta suggerita dalle due figure alla base. Infine, il braccio dell’aguzzino a sinistra e quello della donna che fugge verso destra, formano una lunga curva, ma questa è ancora più vaga.
Allo stesso tempo è utile fare riferimento agli schemi tipici dell’epoca: nel Quattrocento ci aspettiamo di trovare strutture triangolari, assi di simmetria, divisioni in rapporto aureo, mentre nel Seicento è più facile che ci siano tracciati diagonali e asimmetrie, come possiamo osservare nella Resurrezione di Piero della Francesca e nel San Michele Arcangelo di Guido Reni. Ordine, equilibrio e staticità, contro fastosità, instabilità e dinamismo.
È chiaro che questi schemi non erano solo mode compositive proprie di un periodo artistico ma tracciati che svelano il sentire di un’epoca e la visione dell’arte e della società.
Ma vediamo come fare con un’opera più recente, di cui non è disponibile uno schema di lettura consolidato. Prendiamo questo dipinto con Amore e Psiche di Edward Burne-Jones del 1867 e vediamo se si riesce a rintracciare uno schema geometrico.
In base a ciò che scegliamo di considerare linea di forza possono nascere schemi differenti. Tuttavia nessuno di questi può essere considerato “giusto” e quindi attribuito all’intenzione dell’autore.
Lo schema, dunque, va usato come strumento d’indagine, di interpretazione. Da trattare con cautela. Basta poco per forzare la lettura di un’opera attribuendo all’autore schemi geometrici che mai avrebbe considerato.
Certo, a volte ne escono fuori tracciati suggestivi, specie quando rispondono a regole di simmetria o di speciali rapporti proporzionali (con le opere del Rinascimento in genere funziona).
Tuttavia può anche essere una pura coincidenza che alcuni punti si trovino lungo tracciati perfetti applicati al dipinto. Questi schemi sono affascinanti, ma vanno trattati sempre come ipotesi, mai come certezze e meno che mai come scoperte sensazionali.
Oggi purtroppo spopolano sul web tante letture geometriche non solo azzardate ma palesemente errate. Prendiamo queste su due tele di Caravaggio. Pur di appioppare all’opera del povero Merisi un paio di spirali auree da far coincidere con qualche linea del dipinto, l’ignoto autore di questi schemi è arrivato persino a schiacciare le spirali trasformando i quarti di circonferenza in curve ellittiche!
In casi meno gravi, ma non per questo meno arbitrari, la spirale aurea viene piazzata a caso nel dipinto, con l’occhio che finisce in punti per nulla significativi e le curve che percorrono aree qualsiasi.
In verità, non risulta che la spirale aurea (a differenza della sezione aurea) sia mai stata utilizzata nella pittura del passato. Più che altro è uno schema che può dare qualche suggerimento in fatto di composizione fotografica, come l’esercizio che ho proposto a scuola tanti anni fa (legato al Rinascimento solo perché basato sulla Divina proportione). Ma potete stare certi che qualsiasi spirale aurea applicata a un dipinto è una forzatura bell’e buona.
La tentazione di trovare ordine e geometria anche dove non c’è, a volte può far commettere gravi errori concettuali. Ricordo che all’università c’era una docente che chiedeva di tracciare lo schema regolatore della piazza principale della propria città di provenienza. E tuttavia in Sicilia, a parte rarissimi casi come quello della città esagonale di Grammichele, la maggior parte delle piazze è nata da una modellazione spontanea e irregolare dello spazio, stratificata nei secoli.
Ma dato che la docente si aspettava che uscisse fuori uno di quei tracciati belli, pieni di rispondenze armoniche, pur di tirar fuori un rettangolo aureo dove non c’è mai stato, gli studenti finivano per spostare una chiesa un po’ più in là, raddrizzare un prospetto, stringere una strada, allineare pareti, individuare moduli geometrici, fino a quando quelle piazze diventavano regolari come neanche nel Rinascimento!
Ecco questo è uno dei classici casi in cui la ricerca della geometria porta a deformare la realtà pur di farla corrispondere alle aspettative. E non è un problema solo di chi lavora con le immagini, ma una pericolosa tentazione che può colpire anche gli scienziati quando, anche inconsapevolmente, forzano l’interpretazione dei dati o influenzano il risultato degli esperimenti verso ciò che si aspettano di trovare. Si chiama bias di conferma ed è una delle distorsioni cognitive più pericolose in tutti gli ambiti del sapere.
Certo, nella storia dell’arte l’eventuale danno da tracciato geometrico forzato è molto meno rilevante che nell’ambito scientifico. Ma è pur sempre un danno alla conoscenza nonché un messaggio poco educativo: qualsiasi disciplina richiede studio paziente e una costante predisposizione al dubbio.