Fisica e arte: l’arcobaleno nei dipinti

Apparizione impalpabile e suggestiva, l’arcobaleno è uno spettacolo che emoziona. È una curva di colori sospesa in cielo, una promessa di serenità. Non è facile fotografarlo, ma in questi anni ne ho collezionati parecchi.

Ma esattamente che cos’è un arcobaleno? Lasciando da parte la poesia, si tratta di un fenomeno ottico relativamente semplice: quando piove, ma c’è anche il sole, i raggi luminosi che intercettano le gocce d’acqua subiscono una rifrazione (cioè una deviazione della direzione di propagazione), una riflessione all’interno della goccia e di nuovo una rifrazione uscendo verso l’esterno. Poiché la goccia d’acqua si comporta come un prisma, il raggio che fuoriesce subisce una diffrazione, viene cioè scomposto nei colori dello spettro (tutto questo per ogni goccia di pioggia). Quando la direzione del raggio incidente e quella dell’occhio umano formano un angolo di circa 42°, è possibile vedere l’arcobaleno.

Se ci appare sotto forma di arco è perché quello è il luogo dei punti la cui angolazione indirizza il riflesso verso il nostro occhio. Dunque l’arcobaleno è la traccia di un cono visivo ed esiste solo nei nostri occhi (per essere precisi, nel nostro cervello…).

Da queste considerazioni discende che non potremo mai vedere un arcobaleno a sud o comunque vicino al sole. La posizione giusta è il cosiddetto “punto antisolare“, cioè quello in direzione opposta a quella di origine dei raggi luminosi. Per questo gli arcobaleni più ampi si vedranno con il sole molto basso.

Il fenomeno fisico è stato studiato da filosofi e scienziati sin dall’età classica, ma il suo ingresso nel campo dell’arte arriva da tutt’altro ambito e cioè da quello religioso. Nel nono capitolo della Genesi, infatti, l’arcobaleno viene indicato come “arco sulle nubi“, il segno con cui Dio stabilisce un’alleanza con Noè e i suoi figli al termine del diluvio universale. Per questo motivo i primi arcobaleni compaiono sin dal Medioevo nei codici miniati, sempre collegati alla sfera del cristianesimo.

La sequenza dei colori, tuttavia, non è quasi mai quella corretta. Nell’arcobaleno, infatti, il rosso è il colore più esterno, seguito da arancione, giallo, verde, blu, indaco e viola. Naturalmente l’iride non è composto solo da sette colori ma anche da tutte le infinite tonalità intermedie.

Se torniamo allo schema in alto potrebbe venirci un dubbio: come mai se il rosso è il colore inferiore nella dispersione provocata dalla goccia, noi lo vediamo come colore più “alto” nell’arcobaleno? Il fatto è che ciò che noi vediamo è il risultato della rifrazione e riflessione di migliaia di gocce. E queste gocce inviano il rosso con un angolo più “verticale” rispetto al viola. Dunque noi riusciamo a vedere solo il rosso inviato dalle gocce più in alto e il viola delle gocce più in basso. Il risultato è che i colori ci appaiono invertiti rispetto alla sequenza uscente dalla goccia.

Tutto questo, però, non interessava molto agli artisti medievali. L’arcobaleno era un oggetto più simbolico che paesaggistico e la sequenza dei colori risulta molto variabile (ma talvolta è quella corretta). Ecco come appare in alcuni mosaici bizantini del XII secolo, sempre collegati alla fine del Diluvio.

Alcuni artisti, tuttavia, hanno osservato con attenzione il fenomeno naturale, tanto da scegliere di raffigurare il doppio arcobaleno (cioè l’arcobaleno primario e il secondario). Si tratta del Das Buch der Natur di Konrad von Megenberg del 1350 e di un esemplare del De Rerum Naturis di Rabano Mauro risalente al 1425.

Questo effetto è molto frequente, ma in genere l’arcobaleno secondario non è abbastanza intenso da essere percepibile. La sua presenza è dovuta alla doppia riflessione dei raggi luminosi all’interno delle gocce d’acqua. Questo fenomeno produce un secondo arco più ampio, meno luminoso e, naturalmente, dotato di una sequenza di colori inversa a quella dell’arcobaleno primario (il rosso, quindi, è all’interno).
Ecco come viene illustrato da Johann Jakob Scheuchzer nel suo Physica Sacra del 1731.

La fascia che separa i due arcobaleni – chiamata “banda di Alessandro” dal nome del filosofo Alessandro da Afrodisia che la descrisse per primo – appare più scura, perché sotto il primario e sopra il secondario avviene una “dispersione” luminosa dovuta sempre alla rifrazione e riflessione della luce nelle gocce d’acqua che fa sembrare, per contrasto, più cupa la zona tra i due archi.

Dopo il Medioevo però l’arcobaleno continua a mantenere un legame con la religione. È il caso della Caccia di anime dell’olandese Adriaen van de Venne del 1614 che vede protestanti e cattolici contendersi  i fedeli pescandoli letteralmente dalle acque di un fiume, sotto la curva imponente di un arcobaleno.

Le prime rappresentazioni paesaggistiche, prive di qualunque connotazione religiosa, appartengono a Pieter Paul Rubens: due scene pastorali del 1635 e 1636 con un bell’arcobaleno sullo sfondo e una grande profondità spaziale. La seconda, in particolare, è una scena reale e rappresenta la campagna del Brabante fiammingo, tra Bruxelles e Anversa, dove il pittore aveva una tenuta.

Nel secolo successivo altri pittori continuarono a rappresentare l’arcobaleno come spettacolo naturale nel paesaggio, accompagnato da cieli cupi. Si tratta spesso di scene idealizzate, con gli elementi disposti ad arte per creare un insieme pittoresco.

Si distingue da questo filone Angelica Kauffmann, artista svizzera neoclassica che nel 1780 realizza un’allegoria del Colore (facente parte di un gruppo di quadri dedicati alla pittura assieme a “Invenzione”, “Composizione” e “Disegno”) in cui si può osservare una pittrice che raccoglie i colori con il pennello direttamente dall’arcobaleno. L’arcobaleno, dunque, non è più un simbolo biblico o fenomeno naturale ma la sorgente stessa dell’arte.

Dopo di lei arriva al Romanticismo del primo Ottocento e l’arcobaleno, da elemento secondario del paesaggio, ne diventa il protagonista assoluto, come in queste due tele di Caspar David Friedrich del 1808 e 1810. Una falce sottile che attraversa il cielo, spettacolo miracoloso e manifestazione delle potenze naturali. Com’è tipico del pittore tedesco, ci sono sempre delle figure umane che ci consentono di cogliere le dimensioni reali del panorama.

Qualche anno dopo è il turno di William Turner con un acquerello dipinto in Germania, a Osterpai, nel 1817 e un altro ambientato nel foro romano di due anni più tardo. Stavolta l’arcobaleno è un po’ decentrato e ha un aspetto più vago, com’è naturale che sia.

Ma il più romantico degli arcobaleni è quello che il paesaggista inglese John Constable dipinge attorno alla cattedrale di Salisbury colta in un giorno di tempesta, nel 1831. La scena è quasi apocalittica: nubi immense rotolano in cielo, la luce si fa strada a squarci, le fronde ondeggiano al vento mentre un carro trainato da cavalli tenta di attraversare il fiume Nadder. La chiesa gotica si erge sullo sfondo come un’apparizione soprannaturale, illuminata solo in parte.

C’è ancora qualcuno, nella prima metà dell’Ottocento, che riprende la storia del diluvio universale con Noè che ringrazia il Signore sotto un grande arcobaleno, ma l’accento è puntato sull’aspetto paesaggistico piuttosto che sulla storia sacra.

Tutto il resto del secolo è un pullulare di arcobaleni, ormai definitivamente sganciati dall’antica simbologia biblica. Quel diafano semicerchio colorato si staglia, semplice o doppio, sui campi o sull’acqua come pura e semplice visione di bellezza.

Tra gli altri si possono trovare anche un arcobaleno di Jean-François Millet, il pittore realista francese della vita nei campi, e uno di Camille Pissarro, l’impressionista della vita parigina che ha apprezzato molto anche le scene rurali.

Ma i miei preferiti stanno a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il primo è del pittore ucraino Arkhip Kuindzhi, uno dei maggiori paesaggisti della sua generazione. Il suo arcobaleno del 1900-1905, si staglia su un cielo carico di pioggia e incornicia un paesaggio abbagliato dai raggi bassi del sole, gli stessi che producono l’iride. Il contrasto è straordinario, la luce è materia pulsante.

E poi c’è il mio adorato Felix Vallotton con il suo arcobaleno minimalista e materico: solo un arco che si tuffa in mare e poche pennellate per rendere la costa. Niente di più.

Gli ultimi esempi ‘naturalisti’ di paesaggio con l’arcobaleno si possono osservare nei primi del Novecento con due artisti tardo-impressionisti come lo statunitense Maurice Prendergast e lo spagnolo Joaquín Sorolla.

Con “Lo spirito dell’arcobaleno” del 1912-1919 di Henry Mosler, pittore tedesco emigrato in USA, l’iride assume una valenza simbolica e viene personificato in forme femminili.

Appare più tradizionale l’arcobaleno doppio del simbolista tedesco Franz von Stuck del 1927, ma l’oscurità della scena e la presenza di due oscuri pannelli laterali fanno ipotizzare un significato ulteriore e inquietante oltre la semplice visione naturale.

Ma il primo Novecento è tempo di Avanguardie e l’arcobaleno non si è sottratto a quegli esperimenti pittorici. Con Robert Delaunay (1913) e Lyonel Feininger (1928) ne possiamo scoprire due versioni più o meno cubiste.

Poi ci sono alcune versioni vagamente espressioniste, come un Wassily Kandinsky pre-astrazione, un Max Beckmann in piena Seconda Guerra Mondiale e un sognante Marc Chagall, che recupera la suggestione dell’incontro tra Dio e Noè.

Tra la Pop-art e il Minimalismo si collocano invece due versioni molto geometriche dell’arcobaleno. La prima, dal tipico linguaggio a metà tra fumetto e illustrazione, è di Roy Lichtenstein (1980). La seconda, del tutto priva di ogni rimando paesaggistico, è un’opera murale di Sol LeWitt (2004) che abbraccia intere pareti.

Quelli più recenti sono di tutt’altra specie. Si tratta di installazioni in cui l’arcobaleno diventa una creazione spaziale. È il caso delle opere di Gabriel Dawe realizzate con migliaia di sottilissimi fili che attraversano gli ambienti e che riescono a dare forma a un arcobaleno reale e trasparente allo stesso tempo, impalpabile come quello vero.

Ancora più coinvolgente è  Your Rainbow Panorama di Olafur Eliasson, un artista che lavora molto sui temi della percezione, del colore e dell’ambiente. Installato nel 2011 ad Aarhus, in Danimarca, è una galleria anulare sospesa sul tetto del Museo d’Arte con i vetri dei colori dell’arcobaleno (che in questo caso si richiude come un cerchio cromatico). Percorrerlo significa diventare tutt’uno col colore e scoprire le vedute urbane sotto una nuova veste.

Potrei concludere questo articolo con una delle tante citazioni letterarie sull’arcobaleno per spiegare un fenomeno magico che si genera nei nostri occhi e va dritto dentro l’anima, ma forse più delle parole può la musica. E lascio alle note ogni altra spiegazione.

Over the rainbow, suonata da Keith Jarrett.

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14 risposte

  1. Paola Bortolani ha detto:

    Grazie, sono affascinata!

  2. Luisa ha detto:

    E noi ci lasciamo sempre incantare e affascinare dalla meraviglia dell’arcobaleno…grazie per questo momento di grande serenità. Sempre alla ricerca del nostro arcobaleno.
    Un saluto speciale.

  3. Marino Calesini ha detto:

    Grazie . Molto interessante

  4. Simonetta ha detto:

    che meraviglia di articolo! Grazie

  5. Giovanna ha detto:

    Questo articolo e i relativi dipinti, sono davvero un nell’inizio di settimana.
    Grazie.

  6. Clare Ann Matz ha detto:

    Fantastico inizio di settimana!

  7. Anna ha detto:

    Con questa presentazione ,Emanuela,ti sei superata!!!