A pranzo con lo scheletro

In latino si chiama larva convivialis ed è uno scheletro in miniatura realizzato in bronzo, con gli arti snodati.
Un modello per studi di anatomia? Una decorazione funeraria? Nulla di tutto ciò: è un oggetto che gli antichi romani portavano a tavola come “memento mori” (“ricordati che devi morire”), un monito tutto epicureo a considerare la brevità dell’esistenza e conseguentemente un invito a godere dei piaceri della vita.

Questa bizzarra usanza è illustrata egregiamente da Petronio nel suo Satyricon, e in particolare nell’episodio della cena di Trimalcione.

Mentre stavamo bevendo ed ammirando tutte quelle ricchezze straordinariamente curate, un servo portò uno scheletro d’argento (larvam argenteam) conformata in modo che le articolazioni e le vertebre snodate fossero flessibili in ogni direzione. Dopo averlo gettato e rigettato sulla mensa, e la concatenazione delle giunture assunse pose e atteggiamenti diversi, Trimalcione aggiunse:
“Ahimè, miseri noi! Quanto è vero, anzi verissimo,
che questo povero omuncolo (indica lo scheletro), è cosa da nulla!
Saremo ridotti così nessuno escluso,
dopo che l’Orco ci avrà strappato da questa vita.
Dunque viviamo, finché ci è lecito vivere e vivere bene.”

Quello scheletrino somigliava probabilmente a questo. Risalente più o meno al I secolo d.C. e modellato in bronzo, è alto solo 11 cm ed è giunto fino a noi con il braccio sinistro montato sotto la gamba destra.

Gli altri esemplari sono ancora più frammentari.

Aveva la stessa funzione anche il mosaico pavimentale con un teschio proveniente da un triclinium pompeiano (la sala da pranzo della domus). L’emblema, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, raffigura un teschio, insolitamente dotato di orecchie, posto sopra una farfalla (simbolo della caducità) e una ruota (simbolo del destino). Al di sopra oscilla una livella, bilanciata ai suoi lati dai simboli della ricchezza a sinistra (un tessuto color porpora e uno scettro) e da quelli della povertà a destra (il bastone da mendicante, la bisaccia e il mantello).

Un intero scheletro è rappresentato in un altro mosaico pompeiano, pronto a partecipare al banchetto in veste di coppiere.

L’usanza tuttavia sarebbe di origine ellenistica, come dimostra questo mosaico, risalente al III secolo a.C. e ritrovato nel 2016 ad Antiochia, nella Turchia meridionale.

Nella parte centrale si può osservare uno scheletro comodamente sdraiato, che si gode il pane e il vino. Accanto al suo corpo la parola greca “eufrosunos“, traducibile come “siate felici”.

Lo scheletro intero torna in altri mosaici come quello ritrovato in una tomba sulla via Appia. In questo caso la figura indica la scritta in greco antico “gnothi sauton” (cioè conosci te stesso). Il monito ha sempre la stessa funzione, cioè quella di invitare alla consapevolezza di se stessi e della vita, anche se non è più collegato al piaceri della tavola.

Sono destinate ai banchetti anche alcune coppe con scheletri in rilievo. Questo, in ceramica invetriata risalente al I secolo d.C., mostra la larva convivialis con il teschio fortemente sporgente.

Ancora più preziosa la coppa in argento proveniente dalla villa di Boscoreale. Alta solo 10 centimetri e accompagnata da un esemplare gemello, raffigura gli scheletri di famosi filosofi e drammaturghi greci che suonano o recitano sotto una ricca ghirlanda a festoni, accompagnati da frasi epicuree che invitano a godere dell’esistenza. Nulla di macabro, dunque, ma una vera e propria ode alla vita, un carpe diem in forma visiva!

Dopo l’arte romana, con la diffusione del cristianesimo, il teschio e lo scheletro compariranno nell’arte di tutti i secoli, fino a quella contemporanea. Ma il “memento mori” assume un’accezione meno gaia, come ci ricorda l’indimenticabile Troisi…


Resta il monito, ma non il corrispondente invito ad assaporare i piaceri della vita. Anzi l’esortazione è a meditare sulla transitorietà delle cose terrene per indurre il fedele a una vita di rettitudine e rinunce, come in questa Natura morta con teschio di Philippe de Champaigne del 1671.

Per questo motivo si parla di Vanitas, termine tratto dal motto biblico “Vanitas vanitatum et omnia vanitas”, cioè vanità delle vanità, tutto è vanità (dove per vanità non si intende la frivolezza ma la caducità).
Ma di tutto questo parleremo un’altra volta… almeno per oggi “chi vuol esser lieto sia!”.

 

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12 risposte

  1. Massimo Pulito ha detto:

    Singolare, ed interessante. Complimenti.

  2. Antonietta ha detto:

    Interessantissimo! Grazie

  3. Maria Teresa Zanni ha detto:

    Grazie, è stupenda questa riflessione sulla morte ed è curata nelle immagini e, nel commento. Grazie

  4. Silvana ha detto:

    Molto i nteressante! Non ne avevo mai sentito parlare in questi termini

  5. Emanuela Bussolati ha detto:

    Mo’ me lo segno, non ti preoccupare. Sempre interessanti queste “finestre” che ci riportano a vite molto simili alle nostre, quando crediamo di essere molto evoluti.
    Grazie!

  6. Marino Calesini ha detto:

    Fantastico! Troisi unico e inimitabile riesce a stemperare l’atmosfera che si crea quando si tratta un argomento impegnativo… Come quello della morte. Buona giornata.

  7. Marya ha detto:

    Buongiorno Professoressa Pulvirenti, Le sue scelte trasportano sempre in mondi altri ed è un grande piacere ritrovare studi fatti in passato. Grazie mille!