La bellezza nell’imperfezione

Ci sono oggetti che sembrano emanare un’aura speciale. Oggetti affatto belli, per nulla perfetti, magari vecchiotti.

Ma forse è proprio l’aspetto vissuto a renderli così interessanti, così seducenti ai nostri occhi.

Che siano un paio di scarpe vecchie o delle ceramiche sbreccate, ognuno di noi ha sicuramente in casa uno di questi oggetti al quale è particolarmente legato (io ne ho armadi pieni!).

Spesso il fascino misterioso di questi oggetti umili, anonimi sta proprio nel loro essere imperfetti.

Certo, tutti noi ammiriamo le cose belle e nuove ma poi ci affezioniamo a quelle nelle quali il tempo ha impresso una storia, oggetti che sanno evocare il passato e nella cui imperfezione rivediamo noi stessi  con i nostri difetti, le nostre debolezze.

In genere hanno qualità visive e tattili assolutamente uniche. Pensate ai legni spiaggiati, quelli che il mare ha levigato e decolorato sino a ridurli a scheletri inariditi…

Objet trouvé“, così li chiamavano gli artisti del primo Novecento. Oggetti trovati per caso, scarti, rottami carichi di storia che fanno risuonare qualcosa dentro di noi.

Per Le Corbusier erano “oggetti a reazione poetica“: ossa, conchiglie, sassi e parti meccaniche ricchi di potenziale estetico ed immaginativo. Collezionava questi reperti, li fotografava e li disegnava più volte per svelarne la bellezza della forma, la precisione del lavoro della natura e magari riprenderne la struttura nei suoi progetti architettonici.

Ma l’estetica degli oggetti poveri, dei ruderi e dei frammenti è molto antica.

Già nel Rinascimento Botticelli e Mantegna mostrano una forte attrazione per tutto ciò che rappresenta un passato lontano, per le rovine classiche in tutta la loro splendida decadenza.

Ma è tra Neoclassicismo e Romanticismo che il rudere vede il suo momento di maggior gloria. Alcuni artisti come Giovanni Battista Piranesi ne hanno fatto addirittura il tema di tutta la loro produzione.

È il momento in cui l’amore per la classicità (o nel caso di Freidrich per le rovine gotiche) si trasforma in una sorta di devozione feticistica del rudere pittoresco che suscita nostalgia e bisogno di preservarne la memoria.

Sarà John Ruskin, a metà Ottocento, a teorizzare il culto per le rovine romantiche ne “Le sette lampade dell’architettura”.

Con significati completamente diversi, le rovine contemporanee sono state oggetto degli scatti di Gabriele Basilico. Le foto di Beirut del 1991 non hanno nulla di romantico testimoniando, al contrario, le ferite di una città colpita al cuore ma ancora estremamente dignitosa.

Ma nella storia dell’arte non si trovano solo grandi vestigia architettoniche: fin dai tempi di Caravaggio, infatti, l’attenzione è andata anche alle piccole cose che portano i segni del tempo.

Pensate alla celeberrima Canestra di frutta. L’apparente perfezione realistica della composizione nasconde una natura in decomposizione, un senso di bellezza sfiorita e di transitorietà delle cose terrene: la mela è bacata, l’uva sta per marcire, le foglie di vite si stanno già accartocciando.

Sembrano i frutti colti da quel Giardino della Sofferenza di cui racconterà Giacomo Leopardi più di duecento anni dopo:

“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in stato di souffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce…”.

C’è in Caravaggio e soprattutto in tanti pittori fiamminghi del Seicento, la rappresentazione della Vanitas, una natura morta con elementi simbolici allusivi al tema religioso della caducità della vita.

Questa denominazione deriva dalla locuzione latina biblica “vanitas vanitatum et omnia vanitas” (“vanità delle vanità, tutto è vanità”) e, come il “memento mori” (“ricordati che devi morire”), è un ammonimento all’effimera condizione dell’esistenza.

Si tratta di un genere pittorico che ha avuto grande diffusione in età barocca, soprattutto in Olanda, a causa del senso di precarietà che investì l’Europa in seguito alla guerra dei trent’anni e al dilagare delle epidemie di peste.

È con questa chiave di lettura che va osservata la famosa Lattaia di Jan Vermeer. Una donna umile, in una stanza spartana, che compie un gesto semplice come versare il latte da una vecchia brocca. Il tutto con la cura che meritano i gesti nobili e il rispetto verso ciò che è prezioso.

Un gesto, quello della lattaia, talmente intenso e universale da aver meritato i versi della poetessa polacca Wislawa Szymborska:

Finché quella donna del Rijksmuseum nel silenzio dipinto e in raccoglimento,
giorno dopo giorno versa il latte  dalla brocca nella scodella,
il mondo non merita la fine del mondo.

La stessa bellezza nascosta nelle piccole cose vissute e rovinate dal tempo è presente in tante opere di Van Gogh. Stanze squallide, sedie impagliate e vecchi scarponi sono trasfigurati attraverso le pennellate dense e decise del pittore assumendo una nobiltà e una dignità che l’occhio comune non sa cogliere.

Su questa terra vorrei restare eternamente fra le primule gialle e le assi del soffitto che marciscono“, scriveva Vincent in una nelle sue lettere.

Pochi anni dopo toccherà alla poesia crepuscolare decantare il fascino nostalgico e intimista delle “buone cose di pessimo gusto” per dirla alla Gozzano.

Caminetti tetri, lampadari vetusti, acquerelli un po’ scialbi. In pratica simili agli ambienti che in questi ultimi due anni ha fotografato Rebecca Litchfield con il suo progetto “Orfani del tempo“…

… o le stanze spoglie e silenziose che usa dipingere Matteo Massagrande.

In effetti la letteratura ha sempre mostrato una forte predilezione per gli oggetti desueti e inutili che il tempo, dopo aver logorato, ha anche nobilitato.

Scrive Sciascia ne Le parrocchie di Regalpetra: “Il paese è umido. Non una di queste case è nata dentro l’occhio di un architetto; murate a gesso, si intridono di nebbia come carta assorbente, fioriscono all’interno di muffe. Vecchie case con stanze che escono una dall’altra a cannocchiale, con scale storte e ripide. D’inverno ardono nelle stanze bracieri di quell’arida carbonella di gusci di mandorle, il calore risveglia un acre sentore di gatti, muffa e piscio di gatti. Nelle case terragne i poveri riempiono vecchie bacinelle a smalto o tegami di coccio di una brace più effimera, i groppi delle fave o le stoppie del grano che bruciano prima nei forni“.

Molti fotografi vanno a caccia proprio di posti simili, pronti a catturare quest’atmosfera di malinconico disfacimento. Come moderne vanitas laiche, le architetture abbandonate stanno a ricordarci la perdita del nostro passato in un mondo che consuma continuamente il nuovo abbandonando memorie e valori.

D’altro canto la patina che riveste tutto ciò che è invecchiato rende la materia anche più bella di quando è nuova… e questo è il motivo per cui le lamiere arrugginite, le vernici spellate e gli intonaci scrostati sono tanto interessanti!

La materia, dunque, specialmente quando racconta di una sua “sofferenza” appare estremamente espressiva. E di questo se n’è accorto anche Alberto Burri quando, negli anni Cinquanta, iniziò ad incollare sulla tela pezzi di juta, pellicole di plastica bruciata o strani impasti capaci di fratturarsi come zolle arse di terra.

La bellezza dell’imperfezione è portata da Burri all’ennesima potenza quando realizza il Grande Cretto, un’opera di land art che ingloba i ruderi di Gibellina, città rasa al suolo dal terremoto del Belice, in Sicilia, nel 1968.

La desolata distesa di cemento è scavata, come nei quadri fratturati, dai solchi che ripercorrono il tracciato delle strade originali. Come una grande pietra tombale conserva i resti di un città cancellata dalle carte geografiche dalla violenza della natura.

Dunque c’è una bellezza in ogni cosa, c’è una storia in ogni oggetto.

Anche uno scolabottiglie, un vecchio sellino con un manubrio o un gruppo di stampelle per indumenti possiedono un potenziale estetico. Si tratta solo di guardarli con occhi diversi, con lo sguardo della creatività.

 

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34 risposte

  1. Marcello Framba ha detto:

    a proposito di imperfezione ed intonaci scrostati….

  2. Diego Totis ha detto:

    Come sempre i tuoi articoli sono splendidi come splendidi sono i commenti di chi li legge. Sia nelle tue lezioni ( perché di questo si tratta, ogni volta che le seguo mi sento più Ricco) che nei commenti si percepisce un enorme passione per l’Arte.

  3. Danila ha detto:

    decisamente una bella scoperta didatticarte! grazie per il bell’articolo!

  4. veronica ha detto:

    Complimenti

  5. Enzo ha detto:

    Post molto interessante. Mi ha ricordato i presepi napoletani ispirati al paesaggio settecentesco in cui i muri o i portoni delle case se non sono “sgarrupati” non rendono Bella l’opera. Ancora complimenti.

  6. maurizio gades ha detto:

    Didatticarte sei grande e perfetta come moglie. Mi propongo come marito Haha

  7. Emma ha detto:

    Magnifica chiunque tu sia. Sei brava, ti adoro.
    E tutti quelli che ti amano, adoro pure loro!
    Gracias

  8. Marco ha detto:

    Grazie 😀

  9. Dario ha detto:

    Secondo me la perfezione è solo un canone che ci impedisce di guardare oltre e apprezzare tutto ciò che non vi si addice.
    La bellezza è ovunque , anche e soprattutto nelle cose apparentemente anonime.
    L’animo meno sensibile tende a catalogare la bellezza in maniera oggettiva al contrario dell’artista che si affida alle sensazioni che percepisce da ciò che osserva. In parole semplici il primo considera bello solo ciò che “si dice sia bello ” mentre l’ultimo considera bello ciò che stimola in lui sensazioni piacevoli.
    Se tutti in gruppo decidessimo che “nero ” è perfetto e “verde” imperfetto” , la massa non ammetterebbe niente di diverso dal nero, poichè esso rispecchia un canone, una visione comune alla quale è giusto conformarsi.
    Solo pochi apprezzerebbero le altre sfumature .
    Concludendo ; la matematica non è un’ opinione , ma la bellezza altrochè se lo è.
    E mentre la società si sforza di standardizzarla , noi dovremmo imparare a osservare veramente.
    Spero di non aver detto banalità.

    • didatticarte ha detto:

      No, altro che banalità! Spunti di riflessione molto interessanti, argomenti che hanno impegnato da sempre la filosofia alla ricerca di una risposta definitiva (che non può esserci).
      Grazie!

  10. Cecilia Guerrero ha detto:

    Beautiful explanation! I will look with different eyes.,thank you.

  11. Giorgina ha detto:

    ho scoperto per caso questo blog e mi ha affascinato per il contenuto, per lo stile chiaro e per la ricchezza delle immagini. Penso che ci passerò molto tempo perchè lo sento molto affine al mio sentire, all’amore per l’arte tutta senza distinzioni, e alla inesauribile “fame” di conoscenza.
    Grazie all’autore per questo spazio, una finestra sul mondo dell’arte e un modo molto personale di esporla.

    • didatticarte ha detto:

      Ti ringrazio molto Giorgina. È per lettori come te che scrivo questi articoli 😉

  12. Francesco ha detto:

    L’ arte contemporanea é anche, come mostrò Picasso, il re-impiego a fini artistici di oggetti abbandonati gettati sui cigli delle strade. Ma é anche l`utilizzo con fini estetici diversi ed impensati di oggetti di uso quotidiano come per esempio vecchie custodie per macchine fotografiche che esprimono i volti fisionomici di animali o di graffette di cancelleria per descrivere un momento sportivo.

  13. enrica ha detto:

    Bellissimo, fantastico!
    Mi sono ritrovata nelle tue riflessioni, come d’incanto le tue parole hanno dato un nome a delle sensazioni indefinite che spesso non mi so spiegare né raccontare. Con la tua solita passione, poesia e sapiente leggerezza hai saputo far emergere attraverso il tempo e lo spazio il filo di nostalgia che ci lega inevitabilmente al passato.
    Grazie

    • didatticarte ha detto:

      Grazie per queste bellissime parole, Enrica. Ho avuto un certa difficoltà a dare un senso a questo post ma evidentemente quello che avevo dentro è emerso e trova sintonie 🙂

  14. Alessandra ha detto:

    Questo post è da sballo 😀 e mi ha fatto fare questa riflessione:
    secondo la fisica quantistica, l’osservatore crea la realtà. Applichiamo questo all’argomento in questione… la domanda potrebbe essere: qualunque osservatore è in grado di recepire questi oggetti antichi, dismessi o semplicemente abbandonati, come forme d’arte? Come dice la nostra prof. essi hanno “una nobiltà e una dignità che l’occhio comune non sa cogliere”. Occorre quindi una predisposizione, una preparazione per “vedere” oltre ciò che l’occhio comune vede. Questa capacità di visione va affinata, o un vecchio paio di scarpe resterà solo un vecchio paio di scarpe. Ora, l’artista ha senz’altro questa visione e, trasportando l’oggetto sulla tela, lo ricrea e rende partecipi anche noi, osservatori forse meno sensibili, di questo atto creativo.

    • didatticarte ha detto:

      Ottima riflessione, assolutamente pertinente. E a volte non basta neanche la trasposizione su tela da parte dell’artista… qualcuno è rimasto inorridito anche dagli scarponi di Van Gogh!
      È vero, la capacità di guardare con rispetto e cura anche ciò che non è più bello o utile va coltivata. Non tutto può diventare arte ma un sasso raccolto sulla spiaggia può sempre trasmetterci qualcosa di ciò che siamo o di ciò che diventeremo! 😉

  15. elisa ha detto:

    Ciao Emanuela, se passi a Milano vai a vedere I Sette Palazzi Celesti di Kiefer all’HANGAR BICOCCA http://www.hangarbicocca.org/spazio/i-sette-palazzi-celesti/ l’imperfezione e la precarietà delle torri in cemento armato e piombo creano un luogo magico e al tempo stesso sacro… direi anche BELLO 😉

    • didatticarte ha detto:

      Le ho viste il mese scorso. Davvero suggestive! Dal momento in cui ho chiuso l’articolo mi sono venute in mente un sacco di cose da aggiungere… magari le raccolgo per un altro post, inclusa questa 😉

  16. Antonietta ha detto:

    Un blog straordinario! Grazie

  17. Gran bel articolo! Come sempre. Grazie!