Dall’ellisse all’architettura: costruzione di un’unità didattica

Durante l’ultimo concorso per l’insegnamento (nel 2013) ho realizzato un’unità didattica, sulla base di una traccia realmente estratta, per creare un esempio. La traccia in questione è la seguente: “La geometria delle curve: l’ellisse; sua costruzione grafica e sue applicazioni nell’architettura”(cliccando sul titolo si può scaricare il pdf). Si tratta di un argomento interessante perché mette insieme il disegno e la storia dell’arte in modo veramente “simbiotico“.

Come iniziare? Naturalmente con la definizione di questa figura geometrtica: l’ellisse è una curva chiusa (luogo geometrico dei punti) tale per cui la somma delle distanze di ognuno dei suoi punti rispetto a due punti interni fissi, detti fuochi, è costante e uguale alla misura dell’asse maggiore.

Per visualizzare meglio questo concetto può essere utile mostrare la cosiddetta “costruzione del giardiniere” realizzata posizionando due chiodi nei fuochi e tracciando l’ellisse con l’aiuto di una cordicella.

Per capire meglio come procedere può essere utile osservare questo video.

Nulla è più efficace, nell’insegnamento di concetti astratti come le proprietà di una figura geometrica, che far sperimentare tali caratteristiche attraverso un procedimento che veda in azione la manualità dello studente. Questo vale anche per il prossimo concetto.

L’ellisse appartiene alle figure geometriche definite sezioni coniche cioè le curve generate dall’intersezione tra un piano e una superficie conica. Fanno parte delle coniche il cerchio, l’ellisse, la parabola e l’iperbole.

Per visualizzare in modo più intuitivo il concetto di “sezione conica” può essere utile usare il fascio di una torcia elettrica proiettato sul muro. In base all’inclinazione dell’asse del fascio si potranno osservare le coniche proiettate sulla parete.

Quella della figura qui sotto, ad esempio, è un’iperbole perché l’asse del proiettore è parallelo alla parete.

In pratica si può realizzare una sorta di didattica sperimentale del disegno grazie alla quale delle evanescenti figure geometriche acquistano corpo e riescono ad apparire improvvisamente davanti ai nostri occhi!

Ma veniamo al disegno in senso stretto. Esistono diversi metodi di costruzione dell’ellisse. Uno dei più semplici è il metodo delle coordinate. Si tratta di una procedura che richiede un po’ di attenzione nel raccordo a mano libera dei vari punti trovati ma più punti si trovano e più precisa sarà la figura.

A volte si tende a confondere l’ellisse con l’ovale ma, dal punto di vista geometrico, sono costruzioni differenti. L’ovale è una curva chiusa formata da quattro (o più) archi di circonferenza raccordati tra loro, simmetrici rispetto a due assi perpendicolari. È, quindi, una curva policentrica.

L’ellisse non può essere costruito con questa procedura anche se, scegliendo opportunamente le dimensioni degli assi, si possono disegnare ovali ed ellissi quasi sovrapponibili. Solo l’ellisse, inoltre, è esprimibile attraverso un’equazione matematica.

Nella storia dell’architettura l’ellisse è stata più volte ripresa come distribuzione planimetrica o come schema in alzato. In molti casi non si tratta di ellissi perfette ma di forme tendenti all’ovale. Data la somiglianza tra le due figure le prenderò comunque in considerazione entrambe.

La prima testimonianza dell’uso della pianta ellittica (o ovale?) risale agli anfiteatri romani. Questa forma potrebbe derivare dall’accostamento di due teatri semicircolari.

È ellittica la piazza medievale di Lucca proprio perché realizzata su un preesistente anfiteatro romano.

Restando nell’ambito della città si può citare la piazza rinascimentale del Campidoglio e la sua pavimentazione progettata da Michelangelo. Qui è presente un disegno ellittico che, osservato dal punto di vista di un pedone, per via della sua trasformazione anamorfica, appare come un cerchio. In pratica ciò che oggi fanno tanti artisti di strada quando disegnano sul pavimento le loro figure prospettiche come ho raccontato in questo post.

Ma la piazza ellissoidale per eccellenza è quella di San Pietro a Roma, realizzata da Bernini nel XVII secolo. La sua forma richiama l’abbraccio della Chiesa verso i suoi fedeli consentendo, contemporaneamente, di regolarizzare uno spazio che l’evoluzione urbanistica aveva reso frammentario e irregolare.

La pianta ellittica di molte chiese barocche, in special modo quelle di Bernini e Borromini, è una planimetria tipica del Seicento. In pratica è un’evoluzione della chiesa a pianta centrale rinascimentale. L’ellisse appare così una “dinamizzazione” del cerchio, in quanto si crea una tensione direzionale che le chiese del Quattrocento non posseggono.

Nell’età barocca la pianta ellittica è utilizzata anche per le scenografiche scale elicoidali di alcuni dei maggiori palazzi romani.

Bernini utilizzò la forma ellittica persino per le aperture poste sopra l’estasi di Santa Teresa e la Cattedra di San Pietro.

Tornando agli spazi urbani è possibile osservare l’ellisse in alcuni strutture insospettabili… Il ponte di Santa Trinita a Firenze (opera di Bartolomeo Ammannati del XVI sec.), ad esempio, presenta arcate a sezione ellittica: ciò consente di avere grandi luci senza alzare eccessivamente la chiave di volta.

Un’interessante applicazione delle proprietà dell’ellisse è la “camera a volta ellittica”. In questo ambiente tutti i suoni emessi da una sorgente posta in un fuoco (anche di bassissima intensità), vengono concentrati tutti nell’altro fuoco perché riflessi da tutti i punti della volta in quella direzione.

Oggi l’uso dell’ellisse (sia in pianta che in alzato) è molto frequente in quanto permette di creare spazi curvilinei particolarmente dinamici.

Naturalmente la lezione frontale deve essere seguita da momenti laboratoriali che non siano solo di disegno ma anche di analisi delle opere, di realizzazione di mappe, di linee del tempo e di tutte quelle attività capaci di far comprendere in maniera profonda e critica l’argomento.

 

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22 risposte

  1. Gianfranco ha detto:

    Se è troppo lungo… cancellalo pure e cancellami pure in questa mia chiosa.
    Vuol dire che resterà nella nostra labile memoria.

  2. Gianfranco ha detto:

    “Non sono più me stessa. Sono il profilo e l’ombra… di me stessa” (Miss Madrigal ovvero Deborah Kerr nel “Giardino di Gesso”).

    …Grazie Emanuela! Molto acuto e interessante. Voglio rifletterci sopra.
    Nel frattempo, visto che è citato il “nostro” Borges, non posso trattenermi dal riportarlo per intero, “…ut nihil non iisdem verbis redderetur auditum”. (“Naturalis Historia” – Plinio) e (“Finzioni” – Jorge Luis Borges)

    Funes o della memoria
    Lo ricordo (io non ho diritto di pronunciare questo verbo sacro; un uomo solo, sulla terra, ebbe questo diritto, e quest’uomo è morto), e ricordo la passiflora oscura che teneva nella mano, vedendola come nessuno vide mai questo fiore, né mai lo vedrà, anche se l’avrà guardato dal crepuscolo del giorno a quello della notte, per una vita intera. Ricordo il suo volto taciturno dai tratti d’indiano, singolarmente remoto dietro la sigaretta. Ricordo (credo) le sue mani affilate d’intrecciatore; ricordo presso queste mani un servizio da matè, con le armi della Banda Orientale; ricordo a una finestra della sua casa una tenda gialla, con un vago paesaggio lacustre. Ricordo chiaramente la sua voce; la voce posata, nasale e un poco lamentosa dell’orillero antico, senza le sibilanti italiane di oggi. Non l’ho visto più di tre volte; l’ultima nel 1887… M’è parso un progetto: felice quello di chiedere a tutti coloro che lo conobbero di scrivere su di lui; la mia testimonianza sarà forse la più breve, certo la più povera, ma non la meno imparziale del volume che si va preparando. La mia deplorevole condizione di argentino mi impedirà di cadere nel ditirambo – genere obbligatorio in Uruguay quando il tema è un’uruguayano Letterato, persona colta, bonaerense; Funes non pronunciò queste parole ingiuriose, ma sono abbastanza sicuro che io rappresentavo per lui queste sventure.- Pedro Leandro Ipuche ha scritto che Funes fu un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”; non lo metto in dubbio, ma non si deve dimenticare che fu anche un cittadino di Fray Bentos, con certe incurabili limitazioni.
    Il mio primo ricordo di Funes è assai netto. Lo vedo in una sera di marzo o di febbraio del 1884. Mio padre, quell’anno, m’aveva portato in villeggiatura a Fray Bentos. Stavo tornando con mio cugino Bernardo Haedo dalla tenuta San Francisco. Tornavamo cantando, a cavallo, e questa non era la sola ragione della mia felicità. Dopo una giornata soffocante, un’enorme tempesta color ardesia aveva oscurato il cielo. L’incitava il vento del sud, già impazzivano gli alberi; io temevo (e speravo) che lo scatenarsi dell’acqua ci sorprendesse in aperta campagna. Corremmo una specie di corsa con la tempesta. Entrammo in una stradetta che affondava tra due altissimi marciapiedi di mattoni. D’un colpo s’era fatto buio; udii in alto passi rapidi, quasi segreti; alzai gli occhi e vidi un ragazzo che correva per lo stretto e rovinato marciapiede come su uno stretto e rovinato muro. Ricordo le sue scarpe di corda; ricordo, contro la già sterminata nuvolaglia, la sua sigaretta e il suo volto duro. Bernardo gli gridò, imprevedutamente: Che ore sono, Ireneo? – Senza consultare il cielo, senza fermarsi, l’altro rispose: – Mancano quattro minuti alle otto, ragazzo Bernardo Juan Francisco – La voce era acuta, burlesca.
    Sono così distratto che questo dialogo non avrebbe attirato la mia attenzione se non l’avesse richiamata mio cugino, cui stimolavano (credo) un certo orgoglio locale e il desiderio di mostrarsi indifferente alla replica tripartita dell’altro.
    Mi disse che il ragazzo della stradetta era un certo Ireneo Funes, celebre per alcune stranezze, come quella di non frequentare nessuno e di saper sempre l’ora come un orologio. Aggiunse che era figlio d’una stiratrice del paese, Maria Clementina Funes, e che suo padre, secondo alcuni, secondo altri, un rachero del distretto del Salto. Viveva con sua madre in una fattoria dietro la villa dei Lauri.
    Le estati dell’85 e dell’86 le passammo a Montevideo. Nell’87 tornai a Fray Bentos. Chiesi, com’e naturale, di tutti quelli che conoscevo, e da ultimo, del “cronometrico Funes”. Mi risposero che era stato travolto da un cavallo selvaggio nella tenuta San Francisco ed era rimasto paralizzato, senza speranza. Ricordo l’impressione di spiacevole stranezza che mi fece questa notizia: l’unica volta che l’avevo visto, noi venivamo a cavallo da San Francisco e lui camminava in alto; la disgrazia, nel racconto di mio cugino Bernardo, aveva molto d’un sogno elaborato con elementi anteriori. Mi dissero che non si moveva dalla branda, gli occhi fissi su un albero di fico in giardino, o su una tela di ragno. Verso sera, lasciava che l’avviciassero alla finestra. Spingeva la superbia al punto da simulare che il colpo che l’aveva fulminato fosse stato benefico… Due volte lo vidi dietro l’inferriata, che grossamente sottolineava la sua condizione di eterno prigioniero; una volta, immobile, con gli occhi chiusi; un’altra, sempre immobile, assorto nella contemplazione d’un odoroso rametto di santonina.
    Non senza qualche vanagloria, io avevo cominciato a quel tempo lo studio metodico del latino. Avevo nella valigia il De viribus illustribus di Lhomond, il Thesaurus di Quicherat, i commentari di Giulio Cesare e un volume spaiato della Naturalis Historia di Plinio, che eccedeva (e continua a eccedere) le mie modiche virtú di latinista. In un piccolo paese, tutto si viene a sapere; Ireneo, nel suo rancho sulla costa, non tardò a sapere dell’arrivo di questi libri anomali. Mi mandò una lettera fiorita e cerimoniosa in cui ricordava il nostro incontro, disgraziatamente fugace, “del giorno sette febbraio dell’anno ottantaquattro”, esaltava i brillanti servizi che don Gregorio Haedo, mio zio, deceduto in quello stesso anno, “rese alle nostre due patrie nella gloriosa giornata di Ituzaingó”, e mi pregava di prestargli uno qualsiasi di quei volumi, insieme con un dizionario “per la buona intelligenza del testo originale, poiché ignoro ancora il latino”. Prometteva di restituirli in buono stato e quasi immediatamente. La scrittura era perfetta, molto allungata; l’ortografia, del tipo auspicato da Andrès Bello: i per y, j per g. Lí per lí, naturalmente, temetti una burla. I miei cugini mi assicurarono che no, che erano cose di Ireneo. Non seppi se attribuire a trascuraggine, a ignoranza o a stupidità l’idea che per l’arduo latino bastasse, come solo strumento, un dizionario; per disingannarlo interamente gli mandai il Gradus ad Parnassum di Quicherat e il volume di Plinio.
    Il I4 febbraio mi telegrafarono da Buenos Aires che tornassi immediatamente, perché mio padre non stava “niente bene”. Dio mi perdoni; il prestigio che mi valeva l’esser destinatario d’un telegramma urgente, il desiderio di comunicare a tutta Fray Bentos la contraddizione tra la forma negativa della notizia e la perentorietà dell’avverbio, la tentazione di drammatizzare la mia sofferenza fingendo uno stoicismo virile, tutto questo, forse, mi tolse ogni possibilità di dolore. Nel far la valigia, notai che mi mancavano il Gradus e la Naturalis Historia. Il Saturno salpava il giorno dopo, di mattina; quella sera, dopo cena, m’incamminai verso la casa di Funes.
    Nel rancho ben tenuto fui ricevuto dalla madre di Funes. Mi disse che Ireneo era nella stanza di fondo e che non mi meravigliassi di trovarlo allo scuro, perché soleva passare le ore morte senza accendere la candela.
    Attraversai il patio lastricato, un andito breve; giunsi al secondo patio. C’era una pergola; l’oscurità poté sembrarmi totale. Udii d’un tratto la voce alta e burlesca di Ireneo. Questa voce parlava in latino; questa voce (che veniva dalla tenebra) articolava con dilettazione morosa un discorso, o preghiera, o incanto. Risonavano le sillabe romane nel patio di terra; il mio timore le credette indecifrabili, interminabili poi, nell’enorme dialogo di quella notte, seppi ch’erano il primo paragrafo del capitolo ventesimoquarto del libro settimo della Naturalis Historia. L’argomento di questo capitolo è la memoria; le ultime parole furono ut nihil non iisdem verbis redereretur auditum.
    Senza il minimo cambiamento di voce, Ireneo mi disse d’entrare. Stava sulla branda, fumando. Mi pare che non vidi la sua faccia fino all’alba; credo di rammentare la brace della sua sigaretta, ravvivata a momenti. La stanza odorava vagamente d’umidità. Mi sedetti; ripetei la storia del telegramma e della malattia di mio padre.
    Giungo, ora, al punto più difficile del mio racconto; il quale (è bene che il lettore lo sappia fin d’ora) non ha altro tema che questo dialogo di mezzo secolo fa. Non tenterò di riprodurne le parole, ormai irrecuperabili. Preferisco riassumere con veracità le molte cose che Ireneo mi venne dicendo. La forma indiretta è remota e debole; so che sacrifico l’efficacia del mio racconto; lascio al lettore di immaginare i frastagliati periodi che m’incantarono quella notte.
    Ireneo cominciò con l’enumerare, in latino e in spagnolo, i casi di memoria prodigiosa registrati dalla Naturalis Historia: Ciro, re dei persiani, che sapeva chiamare per nome tutti i soldati del suo esercito; Mitridate Eupatore, che amministrava la giustizia nelle ventidue lingue del suo impero; Simonide, inventore della mnemotecnica; Metrodoro, che professava l’arte di ripetere fedelmente ciò che avesse ascoltato una sola volta. Con evidente buona fede, si meravigliò che simili casi potessero sorprendere. Mi disse che prima di quella sera piovigginosa in cui il cavallo lo travolse, era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno smemorato. (Cercai di ricordargli la sua esatta percezione del tempo, la sua memoria dei nomi propri, ma non m’ascoltò) . Per diciannove anni aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto, o quasi tutto. Cadendo, perdette i sensi; quando li riacquistò, il presente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i ricordi più antichi e banali. Poco dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò; ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo minimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibili.
    Noi, in un’occhiata, percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i tralci, i grappoli e gli acini d’una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. Questi ricordi non erano semplici: ogni immagine visiva era legata a sensazioni muscolari, termiche, ecc. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Due o tre volte aveva ricostruito una giornata intera; non aveva mai esitato, ma ogni ricostruzione aveva chiesto un’intera giornata. Mi disse: – Ho più ricordi io da solo, di quanti non ne avranno avuti tutti gli uomini insieme, da che mondo è mondo – Anche disse: – I miei sogni sono come la vostra veglia – E anche: – La mia memoria, signore, è come un deposito di rifiuti – Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuffati d’un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti d’un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo.
    Queste cose che mi disse, ne allora né mai le posi in dubbio. Non c’era a quel tempo cinematografo né fonografo; è tuttavia inverosimile e quasi incredibile che nessuno facesse un esperimento con Funes. Il fatto è che viviamo ritardando tutto il ritardabile; forse sappiamo tutti profondamente che siamo immortali e che, presto o tardi, ogni uomo farà tutte le cose e saprà tutto. Dall’oscurità, Funes continuava a parlare. Mi disse che verso il 1886 aveva scoperto un sistema originale di numerazione e in pochi giorni aveva superato il ventiquattromila. Non l’aveva scritto, perché d’averlo pensato una sola volta gli bastava per sempre. Il primo stimolo, credo, gli venne dallo scontento che per il 33 in cifre arabe ci volessero due segni e due parole, in luogo d’una sola parola e d’un solo segno. Applicò subito questo stravagante principio agli altri numeri. In luogo di settemilatredici diceva (per esempio) “Maximo Perez”; in luogo di settemilaquattordici, “La Ferrovia”; altri numeri erano “Luis Melian Lafinur, Olimar, zolfo, il trifoglio, la balena, il gas, la caldaia, Napoleone, Agustin de Vedia”. In luogo di cinquecento, diceva “nove”. A ogni parola corrispondeva un segno particolare, una specie di marchio; gli ultimi erano molto complicati… Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisamente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 366 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con “numeri” come “Il Negro Timoteo” o “Mantello di carne”. Funes non mi sentì o non volle sentirmi.
    Locke, nel secolo XVII, propose (e rifiutò) un idioma impossibile in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio; Funes aveva pensato, una volta, a un idioma di questo genere, ma l’aveva scartato parendogli troppo generico, troppo ambiguo. Egli ricordava, infatti, non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoi giorni passati a un settantamila ricordi, da contrassegnare con cifre. Lo dissuasero due considerazioni: quella dell’interminabilità del compito; quella della sua inutilità. Pensò che all’ora della sua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordi della sua infanzia.
    I due progetti che ho detto (un vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri, un inutile catalogo mentale di tutte le immagini del ricordo) sono insensati, ma rivelano una certa balbuziente grandezza. Ci permettono di intravedere, o di dedurre, il vertiginoso mondo di Funes. Questi, non dimentichiamolo, era quasi incapace di idee generali, platoniche. Non solo gli era difficile di comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l’infastidiva il fatto che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte). Il suo proprio volto nello specchio, le sue proprie mani, lo sorprendevano ogni volta. Dice Swift che l’imperatore di Lilliput discerneva il movimento delle lancette d’un orologio; Funes discerneva continuamente il calmo progredire della corruzione, della carie, della fatica. Notava i progressi della morte, dell’umidità. Era il solitario e lucido spettatore d’un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso. Babilonia, Londra e New York hanno offuscato col loro feroce splendore l’immaginazione degli uomini; nessuno, nelle loro torri popolose e nelle loro strade febbrili, ha mai sentito il calore e la pressione d’una realtà così intangibile come quella che giorno e notte convergeva sul felice Ireneo, nel suo povero sobborgo sudamericano. Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimento o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire.
    Anche soleva immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annulato dalla corrente.
    Aveva imparato senza fatica l’inglese, il francese, il portoghese, il latino. Sospetto, tuttavia, che non fosse molto capace di pensare. Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immediati.
    Il chiarore esitante dell’alba entrò per il patio di terra.
    Allora vidi il volto di quella voce che aveva parlato tutta la notte. Ireneo aveva diciannove anni; era nato nel 1868; mi parve monumentale come il bronzo, ma antico come l’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole (ciascuno dei miei movimenti) durerebbe nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.
    Ireneo Funes mori nel l889, d’una congestione polmonare.
    [1942]

  3. Gianfranco ha detto:

    …forse trascuri “l’effetto Willy Coyote” dei luoghi digitali…

  4. Gianfranco ha detto:

    Più consolatorio o più vero? Paperino esiste, in fin dei conti.
    …Ipazia, Galla Placidia, Isabella d’Este, Artemisia Gentileschi, Marie Curie, Joan Clark…
    Fossero nate oggi, avrebbero sicuramente realizzato un blog.

    • La realtà dei mondi immaginari esorcizza i nostri limiti. Wile E. Coyote si sfracella sempre ma non muore mai.
      (… ma tra qualche anno non se le sarebbe ricordate nessuno, vista l’evanesceza e l’obsolescenza di questi luoghi)

  5. Gianfranco ha detto:

    Dal film “Agorà”:
    https://www.youtube.com/watch?v=6tvIjZXGo7s
    L’ipotesi che Ipazia, filosofa, matematica ed astronoma, a capo della scuola neoplatonica di Alessandria di Egitto, vissuta nel periodo a cavallo tra il IV e il V secolo d.C. e trucidata da fanatici religiosi nel 415 d.C., abbia intuito il moto ellittico eliocentrico dei pianeti è assolutamente romanzata, tuttavia è dell’Arte immaginare belle storie…
    “Tutte le conoscenze accessibili allo spirito umano, riunite in questa donna dall’eloquenza incantatrice, ne fecero un fenomeno sorprendente, e non dico tanto per il popolo, che si meraviglia di tutto, quanto per i filosofi stessi, che è difficile stupire.” (Denis Diderot)

    • Immagino che l’arte sia nata per questo: raccontare storie di un mondo immaginario, più consolatorio.
      (chissà se lo stupore fosse per tutte quelle doti o per quelle doti in una donna…)

  6. Andrew ha detto:

    P. S.: altrove ho appena letto un’altra possibilità: non si sa se si tratti di un ovale o di un’ellisse, per questo ancora se ne discute.
    Sarei comunque curioso di sapere il tuo parere definitivo. Ovale od ellisse?

  7. Andrew ha detto:

    Una domanda da profano: siete sicuri che Piazza San Pietro sia un’ellissi? Su molti siti, perfino su quello del vaticano, parlano di ovale, o sia di ovale che di ellissi, ma avendo letto questo articolo ho capito che ovale ed ellissi sono due cose diverse, perciò si tratta di un loro errore? Oppure è un ovale e non un’ellisse?

    • Ovale ed ellisse sono due figure geometricamente differenti. Ma in termini di percezione e di architettura la differenza non è particolarmente rilevante. Per questo ho inserito nell’articolo sia edifici a pianta ovale che a pianta ellittica (rifacendomi alle descrizioni date dai libri).
      PS perché usi il plurale? Sono una sola persona.

      • Andrew ha detto:

        Credevo ci fosse uno staff.
        Comunque continuo a non capire: è chiaro che ovale ed ellisse siano due cose diverse, questo l’avevo letto, ma non è chiaro se Piazza San Pietro sia un’ellisse od un ovale, poiché su molti siti, come ripeto, parlano di ellisse o di ovale, o di entrambe, confondendole.
        Qui l’avete definita un’ellisse, per questo chiedo, viste le numerose discordanze fra i vari siti, se ne sei sicura e in base a cosa. Insomma mi piacerebbe una spiegazione più dettagliata, con prove alla mano se possibile.

        Grazie

  8. Paolo Bettini ha detto:

    Solo una correzione: le arcate del ponte a Santa Trinita non sono a curvatura ellittica. Ciascuna di esse è formata da due rami di CATENARIA (la curva che forma una catena appendendola per i capi) che s’incontrano al centro. Propio per occultare lo spigolo, la discontinuità, che formano in quel punto, Ammannati (non Michelangelo, che con buona pace di Zevi non c’entra nulla) ha posto i cartigli di marmo bianco.
    Tutto ciò me l’ha raccontato l’architetto Riccardo Gizdulich (1908-83) che curò con l’ing. Emilio Brizzi la ricostruzione del ponte dopo che i tedeschi in ritirata l’avevano fatto esplodere il 4 agosto del 1944. Gizdulich tracciò le centine incollando a parete del suo studio una foto Alinari – ruotata in verticale di 90° – ripresa dal centro di ponte Vecchio, e poi le fece scendere davanti una catena appesa al soffitto, allontanando e avvicinando i punti di sostegno finché le curve non combaciavano perfettamente.
    Purtroppo quando ebbe terminato gli archi e andò a disarmarli (1958), i conci di pietra forte (per cavare i quali aveva fatto riaprire la cava del giardino di Boboli), posti sotto compressione, ebbero un ritiro di qualche centimetro. Talché oggi il ponte NON ha la forma che aveva l’originale: è leggermente più basso…
    Gizdulich diceva pure che la catenaria è un’ottima curva per l’arcata dei ponti, dato che cresce molto rapidamente all’imposta per poi diventare quasi orizzontale e in tal modo combina il foro più ampio possibile per il passaggio dell’acqua con il minimo di salita che la gente e i carri devono fare per passare dall’altra parte.

  9. giuliano ha detto:

    LEZIONE INTERESSANTE ESEMPIO DI MODERNO INSEGNAMENTO

  10. giancarla ha detto:

    per me un ripasso molto interessante perché attualizzato.

  1. 12 Ottobre 2014

    […] Dall’ellisse all’architettura: costruzione di un’unità didattica. Durante l’ultimo concorso per l’insegnamento ho realizzato un’unità didattica, sulla base di una traccia realmente estratta, per creare un esempio. […]